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GABRIELE DE STEFANI per la Stampa
I tifosi soffrono per il declino sul campo, che si misura con il metro delle coppe: negli ultimi dieci anni zero vittorie per le squadre italiane. E poi c'è il declino economico, che i club sperimentano quando vendono i diritti televisivi della serie A:
se fino a 5 anni fa eravamo il secondo torneo d'Europa per introiti dalle tv, ora l'ex campionato più bello del mondo incassa meno della metà della Premier League inglese, un terzo in meno della Liga spagnola ed è stato superato dalla Bundesliga tedesca. Tutte cresciute ad un ritmo dalle tre alle cinque volte più veloce nella partita decisiva per il settore: vale fino al 75% del budget complessivo della sesta industria del Paese.
Pesa il calo di appeal della serie A, impoverita tecnicamente, ma ad incidere - spiegano gli analisti - è soprattutto il gap nella governance: scarsa programmazione, commercializzazione e marketing poco sopra i livelli degli anni '90, girandola di proprietari in troppi top club. Mentre all'estero si vende anche uno spezzone di partita su Amazon a un euro, in Italia siamo all'offerta degli albori delle pay-tv.
Ecco perché la Lega di serie A si prepara ad aprirsi a capitali e competenze esterni. Non si può più aspettare, specie ora che il Covid riduce gli introiti e la capacità di spesa dei pochi mecenati rimasti. Entro venerdì sul tavolo della Confindustria del pallone arriveranno le offerte dei fondi di investimento interessati a diventare soci della media company che dovrà spingere il prodotto serie A.
La scadenza, fissata per oggi, è slittata di qualche giorno su richiesta dei club ma resta fermo un punto: il piano deve essere presentato fatto e finito, immediatamente vincolante. Favorita la cordata tra Cvc, Advent e Fsi, che valorizza la media company tra i 12 e i 15 miliardi, garantendo tra l'altro una vitale dose di liquidità ai club. In corsa anche Bain Capital e gli americani di Apollo. Con l'incognita dei diversi piani di Lazio e Napoli.
Le ragioni del declino I diritti tv della A per il triennio 2018-21 sono stati venduti a 4,2 miliardi. Impietoso il confronto con i 9 miliardi della Premier League e i 6 (e presto 8) della Liga, con una forbice larghissima per la trasmissione delle partite all'estero: 1,1 miliardi in tre anni per l'Italia, 4,5 per il campionato inglese e oltre 3 per quello spagnolo.
Le previsioni per il prossimo triennio sono al ribasso per la A: il Covid riduce la capacità di investimento e l'audience è in frenata dopo il lockdown. Secondo gli analisti, la perdita di competitività della serie A è il risultato di tre fattori: «Di certo incidono i minori successi e il calo della qualità dello spettacolo - dice Andrea Scialpi, partner di EY -.
Il secondo tema è l'offerta. All'estero c'è più spazio per i cosiddetti Ott, media non tradizionali che sfruttano i canali digitali con prodotti innovativi: dai pacchetti per poche gare alla vendita on-demand di singoli eventi o solo di un tempo di una partita. Qui siamo fermi al modello Telepiù di quasi 30 anni fa». La leva decisiva, in prospettiva, è però la terza: «Il prodotto serie A è proposto male - prosegue Scialpi -. Prendiamo la Liga spagnola: un team di 400 persone lavora solo a commercializzazione, marketing ed elementi accessori alla partita. In Inghilterra il premio di giocatore del mese è un evento che muove milioni di sterline, mentre qui quello di giocatore dell'anno è un appuntamento secondario in cui il premio è un orologio.
La Lega Calcio fatica a stare al passo con i tempi per un problema di governance: negli ultimi 15 anni abbiamo avuto diverse inchieste, la girandola di proprietari improbabili in molte grandi squadre, poca programmazione.
Un canale della Lega e in generale l'eventuale ingresso di fondi di private equity nel capitale e nella governance sicuramente porterebbe una gestione più efficace verso il cliente e il broadcaster. Le previsioni ci dicono che nel post-Covid il valore dei diritti calerà, ma il mercato italiano ha margini per crescere perché parte più indietro. Però deve migliorare l'offerta, è impensabile incassare di più senza rinnovarsi».-
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