FLASH! - FERMI TUTTI: NON E' VERO CHE LA MELONA NON CONTA NIENTE AL PUNTO DI ESSERE RELEGATA…
Claudia Colasanti per il “Fatto quotidiano”
Le occasioni per rivedere il pregiudizio e la rimozione subìti da Mario Sironi (1885-1961) – prima pittore, poi colossale (in tutti i sensi) artista interdisciplinare, illustratore, mosaicista, grafico, scultore – non sono mancati. Eppure non sono stati sufficienti né i decenni che ci separano dal fascismo, né quelli trascorsi dall’anno della sua scomparsa (1961) per considerare virtuosa la sua opera, etichettata come faziosa, univocamente politica, con la totale adesione al fascismo (i suoi numerosi e giganteschi murali, che qui possiamo osservare nei loro toni più perentori ma privi di retorica, progettati a misura per l’impero ) e la sua intesa, mai rinnegata, con Mussolini.
Utile, anche per dissipare molte storture critiche, questa grande mostra antologica, allestita al Vittoriano di Roma (fino all’8 febbraio 2015), offre una visione ampia di tutto il suo impervio, plumbeo, a tratti stravagante (per troppa etica) percorso, partendo dalle primissime e ancora indecise prove pittoriche.
Ancor più chiaro, durante l’itinerario, emerge il carattere dell’uomo, sin da giovane pessimista e catastrofico; e il suo aspetto psicologico, che lo rese vulnerabile e diffidente, soggetto a frequenti crisi depressive. Ne era conscio, sin da subito, Mario Sironi, di proiettare anche nelle sue opere l’assioma di una necessità del dolore, della visione drammatica dell’esistenza dell’uomo moderno e dei suoi raggelanti nuovi insediamenti urbani, sostituendo un futile e passeggero successo a favore dell’ideale: “L’arte non ha bisogno di essere simpatica, comprensibile, ma esige grandezza, altezza di principi”.
In mostra tutte le stagioni della sua pittura (con novanta dipinti), dagli esordi simbolisti al momento divisionista, dal periodo futurista a quello metafisico, dal ‘900 italiano alla pittura murale fino alle opere del Dopoguerra, con bozzetti, riviste, e carteggi (comprese le impettite sollecitazioni: Sironi era spesso in ritardo con le consegne) con alcuni protagonisti del Novecento italiano, da Margherita Sarfatti, con cui condivise solidarietà critica e umana, fino a Marcello Piacentini, che con lui costruì gli imponenti scenari fascisti.
Il suo autoritratto, del 1909, eseguito a 24 anni, è l’immagine di un giovane severo, con l’espressione dura e le sopracciglia inarcate; così come cupo è il ritratto della madre del 1914. Seguono, oltre ai tentativi futuristi e metafisici, una serie di dipinti (1920) di grande bellezza, che raccontano, con toni freddi e pochi drammatici elementi (un muro, un palazzo dalle finestre squadrate, un ciclista affaticato), tutto lo stupore del precoce fallimento delle nuove città, dei suoi trasporti e soprattutto delle nuove periferie; e della malinconia urbana che investirà i suoi futuri abitanti.
E ancor di più dalla mostra emerge il suo sentimento di intima e definitiva solitudine: dall’inizio alla fine della sua vita, prevedendo, come avvenne, che in pochissimi avrebbero seguito il suo feretro. Al termine della mostra la sua profezia è infatti davanti ai nostri occhi. Ne Il mio funerale, una piccola tela del 1960, sfila un minuscolo corteo trainato da un cavallo; alle spalle, come graffiti su un muro affollato, appaiono le icone incrollabili della sua esistenza: le enormi sagome dei murali e la severa geometria priva di calore umano.
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