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1. A LEO SERVIREBBE L’ARROGANZA DI DIEGO
Mario Sconcerti per il “Corriere della Sera”
È in effetti strana perché lunga questa storia inodore di Messi in Nazionale. Raramente è all’altezza di se stesso. È certamente un fatto emotivo. Giocasse in Argentina sarebbe più goduto, più abituato al giudizio del Paese. Giocando da sempre all’estero, Messi sente di dover riempire il vuoto, di far capire ogni volta chi è. Nemmeno la Nazionale lo aiuta. Gioca di rimessa, senza veri attaccanti, con poche sponde.
Ma è anche vero che Messi, al contrario di Maradona, è soprattutto un solitario. Il suo gioco si esaurisce quasi sempre in se stesso, prodigioso e spettacolare proprio perché ramingo. Maradona non aveva le sue doti di attaccante, segnava decisamente meno. Quando li si paragona si dovrebbe sempre ricordarsi che sono merce diversa. Maradona era però un leader, aveva bisogno di responsabilità in campo, amava essere il riferimento e lo scudo di tutti. Maradona era l’uomo della squadra, Messi costruisce una squadra perché segna tanto.
La piccola verità è che Messi e Maradona avrebbero potuto benissimo giocare insieme. Non è un obbligo d’altra parte che l’Argentina di Messi vinca Mondiali e Copa America, anche Maradona vinse un solo Mondiale, ma è strano le perda sempre all’ultimo minuto, nella partita in cui la classe individuale ha il dovere di dare una differenza.
Forse questa emotività da emigrante di lusso condiziona davvero Messi fino a limitarlo. Forse questo è il suo confine in fondo a uno spazio infinito. È nel suo migliore momento atletico. Quell’intermittenza che lo rende anonimo dovrebbe essere superata quasi di slancio, per semplici doti naturali. Invece insiste. Non ci sono spiegazioni tecniche.
A Messi manca l’arroganza di Maradona, il suo voler essere di tutti. Messi parla poco, ha un carisma eccezionale ma solo tecnico, travolge ma non trascina. Probabilmente soffre molto di questa incompiutezza. Ma questo ne fa almeno un uomo normale, più reale di Maradona.
2. LA DOPPIA VITA DI MESSI
Alessandro Pasini per il “Corriere della Sera”
Leo Messi ha una doppia vita e non si capisce ancora bene perché. Quello che si sa è che gli basta cambiare maglia per trasformarsi nel suo opposto: con quella del Barcellona il campione è bello, vincente e immortale; con quella dell’Argentina è il ritratto di se stesso che imbruttisce e invecchia in soffitta.
È accaduto anche sabato a Santiago: l’Argentina ha perso 4-1 ai rigori la finale di Copa America col Cile e Messi ha incassato la seconda delusione in dodici mesi dopo la finale mondiale persa 1-0 il 13 luglio 2014 con la Germania. Con quella di Copa America 2007, sono tre le sue finali perse. In totale fanno sei tornei falliti con la Nazionale di un Paese produttore di fenomeni ma il cui ultimo successo è la Copa America 1993, quando Messi aveva sei anni e, almeno questo gli va riconosciuto, zero colpe.
Sui guai di Leo in Nazionale si argomenta da anni: lì gli manca il caldo microcosmo tattico e ambientale del Barça, dove si è formato come calciatore e come uomo; lì dovrebbe essere un trascinatore e invece lui, per carattere, è un trascinato; lì capita che ci siano partite sporche e cattive dove uno come Medel lo annulla, incrinando anche il famoso credo secondo cui Messi non si marca a uomo; lì non ha un tecnico come Guardiola o Luis Enrique ma quel Tata Martino che, non a caso, aveva già fallito al Barça; lì, infine, non ha Iniesta, Xavi e tutta la bella compagnia che lo ha accompagnato in dieci anni di trionfi.
Su quest’ultima teoria si potrebe discutere in eterno. Da un lato infatti una squadra che, com’è accaduto contro il Cile, può sostituire Di Maria con Lavezzi o Aguero con Higuain, e non impiegare Tevez, tanto scarsa non è. D’altro canto è vero che al Barcellona gli assist di Leo vengono quasi sempre trasformati mentre con l’Argentina molto meno, se è vero che Higuain ha sprecato due suoi perfetti passaggi gol sia nella finale Mondiale che in quella di Copa America (per tacere dell’ennesimo rigore spedito in cielo dopo quelli decisivi sprecati con il Napoli, ma questo è un’altra triste storia).
Avanti col dibattito. Messi almeno il suo rigore lo ha segnato, dicono i suoi difensori. Però non ha combinato altro, replicano i critici. Alcuni dei quali vanno oltre: parliamoci chiaro, Leo è a Barcellona da quando ha 13 anni, non è un vero argentino come lo era Maradona.
E qui naturalmente si arriva al punto più delicato di tutta la storia. Ammesso che questa classifica abbia senso, si sostiene da sempre che ciò che manca a Messi per essere incoronato il migliore di sempre è un successo con la Seleccion. Perché, statisticamente parlando, lui è superiore a Diego: in Nazionale ha segnato 46 gol in 103 partite contro 34 in 91; a livello di club ne ha segnati 412 in 482 partite contro 312 in 588; ha vinto tre Champions contro zero, eccetera eccetera.
Tutto vero, anche se difficilmente Messi sarebbe capace di imitare l’impresa da rivoluzionario capopopolo di Diego a Napoli. Il vero discrimine, nell’immaginario dei tifosi di tutto il pianeta, è però un altro: Maradona ha conquistato il Mondiale del 1986 da leader assoluto, segnando gol memorabili e, pur in una finale in ombra, lanciando comunque Burruchaga per il decisivo 3-2 alla Germania.
Higuain anziché Burruchaga: magari il male oscuro di Messi è tutto qui... O forse non è un male ma solo una conseguenza dello sport: le finali si possono perdere anche senza colpe specifiche. Resta il fatto che, a 28 anni e con questa grande generazione che invecchia («Per molti di noi non ci saranno altre chance», ha detto amaro Lavezzi), il tempo stringe. Per questo Leo sabato era distrutto. Per questo il suo compagno del Barcellona, Piqué, ha provato a consolarlo: «Sappi che comunque sei sempre un D10S». E però a qualche fedele il dubbio rimane: un dios tutto blaugrana è un dios assoluto?
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