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Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia
Sanguinaccio Juve. Dalle loro parti li si immagina che si mordono fino a sanguinare mani, gomiti e piedi. Morsi e rimorsi. Fuori il Barcellona di Messi, claudicante il Bayern di Guardiola, troppo schiavo delle imprese di Cristiano Ronaldo il Real Madrid, già battuto due volte nella fase a gironi il Manchester City, squadra di anime forti ma di qualità modesta e vocazione alla trincea da calcio italiano anni ’60 e ’70 l’Atletico Madrid del Cholo Simeone, poteva e doveva essere l’anno buono per la Champions della finale a Milano (l’inenarrabile godimento aggiunto di brandire l’Oggetto dalle Grandi Orecchie nello stadio dei rivali di sempre).
E invece godono come pazzi in Spagna sulle rive del Manzanarre. Madrid due, Italia e Catalogna niente. La capitale del monarca piazza due squadre in semifinale, due mondi che più opposti non si può. Non ricordo il caso di un allenatore capace di trasferire se stesso, la somma dei suoi valori immaginari, in pratica il suo macho e latino delirio, in una squadra di calcio o qualsiasi.
proteste barcellona per fallo di mano di gabi
Si chiama “cholismo”, da El Cholo, parola che deriva dall’atzeco e indica una mistura di razze. In questo caso, viceversa, un’identità scolpita nella roccia. Parliamo di Diego Pablo Simeone, ex calciatore argentino di Inter e Lazio, allenatore abbastanza dimenticabile da noi al Catania, oggi il migliore della Liga spagnola, da cinque anni artefice di questa che, ancora prima che sportiva, è un’impresa di transustazione, altrimenti non spiegabile. Una forma di cannibalismo teologico applicato al calcio. I giocatori dell’Atletico mangiano e bevono il corpo e il sangue del loro allenatore.
Cambiano i nomi, non cambia la storia. Calciatori dal glamour zero, spesso riciclati o ripescati, altre volte inventati, che finiscono puntualmente per “simeonizzarsi”, in una trance agonistica permanente da furore latino e baionetta sempre sguainata, alla faccia del bel calcio fraseggiato e, soprattutto, alla faccia della insostenibile spocchiosità madridista. Simeone vuole uomini forgiabili non campioni inalterabili. A filmare El Cholo e la sua banda ci voleva uno come Sam Peckinpah. Un vero e proprio mucchio selvaggio, il suo. Mai vista tanta dedizione alla causa in un gruppo applicato al successo sportivo.
Al contrario, nella panchina del Real ci puoi mettere un cartone sagomato, nemmeno animato. Questo è di fatto Zinedine Zidane, se in campo fenomeneggia Cristiano Ronaldo. Da solo, senza quasi, spazza via gli abusivi già certi di piazzare l’insegna della Volkswagen al Bernabeu, segnando tre volte in tutta la varietà del suo infinito repertorio. Cristiano Ronaldo è, come Novak Djokovic nel tennis (ieri ha perso a Montecarlo, ma solo per concedere una pausa e non ammorbare il mondo del tennis in una disperante e tediosissima monocrazia), la nuova frontiera del campione post-umano, una combinazione di talento e laboratorio.
Nel giorno di Cristiano, quel magnifico autistico di Leo Messi, firma invece una delle sue sempre meno rare, spettacolari assenze. Il che spiega abbastanza l’eliminazione stupefacente del Barcellona, campione uscente. Paralizzato alla soglia maledetta del numero 500, la somma dei suoi gol, il piccolo Leo soffre sempre più spesso di straniamenti che lui per primo non sa e non gli frega niente di decifrare.
Sublimi fuori parte, al cospetto della pacchiana e molto esibita “presenza” del suo rivale. Aggredito dal mondo di fuori che bussa con le sue sparse volgarità alla porta, eventuali frodi fiscali, parenti vicini e lontani un po’ troppo disinvolti, imprese e titoli dello stesso ipermuscolato rivale di Madrid, il pallido Leo si chiude nel suo guscio, sputacchiando a caso e allungando quel suo sguardo vacuo da tacchino, imperscrutabile e lontano. A pochi metri della sua apatia, a bordo panchina, stavolta è l’inferno tutto per Luis Enrique.
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