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Luciana Grosso per "la Repubblica"
A quattro anni, Maria Toorpakai Wazir decise che i suoi vestiti non le piacevano. Così li mise tutti in un mucchio e, chissà come, riuscì a bruciarli. Tutti. Il padre, al rientro a casa, trovò la stanza della sua bambina devastata ed esclamò: «Ma cos'è? à passato Gengis Kahn qui?». Da allora il nome del condottiero mongolo divenne il suo soprannome di bambina pestifera e, con il passare degli anni, lo pseudonimo maschile dietro al quale celare la sua identità di ragazza per diventare, nel cuore del Pakistan conservatore, una campionessa di squash.
«Il mio primo sport - racconta ora che ha 23 anni e vive a Toronto, dove si allena lontana dalle minacce dei Taliban - fu il sollevamento pesi. Iniziai da bambina, prima dei dieci anni. Nella regione di Peshawar non c'era ovviamente una sezione femminile, anzi: per le ragazze Pashtun è considerato un grande disonore fare sport. Così, mio padre decise di tagliarmi i capelli, di comprarmi dei vestiti da maschio e tirò fuori il nomignolo che mi aveva affibbiato da bambina: Gengis Kahn. D'ora in poi mi sarei chiamata così».
Con quel nome altisonante, la giovane Maria, a dodici anni, divenne la numero due del ranking juniores di sollevamento pesi. «La mia specialità mi piaceva, ma cercavo qualcos'altro. Un giorno, durante le vacanze, con mio fratello provai lo squash, uno sport che dalle mie parti è solo per le élite. Ne rimasi folgorata. Andai da mio padre e dissi: è questo che voglio fare d'ora in poi. Lui non fece una piega e con lo stesso stratagemma del nome finto e dei vestiti maschili mi iscrisse all'accademia di squash della PAF, la Pakistan Air Force».
Il trucco escogitato da Maria e da suo padre, resse per un po', consentendo a Maria di imparare, allenarsi e di battere quasi tutti i maschi (veri) che gareggiavano con lei. Una routine che le piaceva e che non dava fastidio a nessuno. «I guai - racconta - sono cominciati quando il direttore della scuola volle iscrivermi ai campionati juniores over 16 e chiese a mio padre il mio certificato di nascita che, semplicemente, non esisteva. Fummo costretti a dire la verità ».
La reazione del direttore della scuola fu sorprendente: «Non si arrabbiò, anzi, mi regalò persino una racchetta da squash autografata da Jonathon Power, il campione canadese. Disse che mi avrebbe permesso di continuare a frequentare la palestra e che mi avrebbe iscritto comunque ai campionati».
Ma non tutti la pensavano allo stesso modo: i suoi compagni di allenamento, i suoi avversari presero a isolarla, a vessarla in ogni modo a non voler più giocare contro di lei: «Erano spietati, soprattutto quelli che, in passato, avevo battuto». Una discriminazione continua che, per quanto dolorosa, non la ferma. Nel 2007, dopo essere diventata professionista, riceve un premio speciale dalle mani del presidente Musharraf.
«Con tutte quelle vittorie avevo dato nell'occhio e attirato l'attenzione dei Taliban. Iniziarono le minacce, mi scrivevano che se avessi continuato a giocare contro i maschi e per di più senza velo e in calzoncini, le conseguenze per la mia famiglia sarebbero state terribili. Ero terrorizzata. Presi ad allenarmi in un capannone abbandonato, di notte, da sola. Mio padre mi portava in giro su una vecchia macchina a cui cambiava la targa ogni giorno».
Uno stillicidio che non poteva continuare, tanto che Maria prese a scrivere a tutte le scuole di squash del mondo. «Nessuno rispose per anni, fino a quando non arrivò la mail dell'accademia di Toronto, quella di Jonathon Power, lo stesso il cui nome era inciso sulla mia racchetta. Pensai che fosse un segno, non esitai e partii subito». Oggi Maria è la giocatrice numero uno del ranking pachistano e la numero 54 di quello mondiale. Ma è così giovane da avere ancora molti progetti per il futuro. «Il più importante di tutti, però, è di poter tornare in Pakistan e cambiare, in meglio, il mio Paese».
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