DAGOREPORT – CON L'OPERAZIONE GENERALI-NATIXIS, DONNET SFRUTTA UN'OCCASIONE D'ORO PER…
Giampiero Mughini per Dagospia
Caro Dago, e a parte il magnifico libro/emblema che su di lui scrisse Edmondo Berselli, la memoria che io ho di Mariolino Corso è straziante. Era successo nei miei vent’anni che io avessi assorbito alcune porcate del modo di ragionare “impegnato” in voga nella mia generazione.
Uno di questi teoremi cialtroneschi era che lo sport fosse un affare non talmente degno di attenzione, qualcosa che allontanava dai pensieri validi e corretti, quelli di cambiare la società a forza di scioperi operai eccetera. Uno che avesse a cuore questi cambiamenti non poteva perder tempo a guardare e appassionarsi di quel che succedeva su un campo da gioco.
E dunque io – che pure nello sport avevo avuto l’esperienza la più fondante della mia adolescenza, e che di sport agonistico ne avevo praticato molto – smisi di leggere le pagine sportive. Per tre o quattro anni non ne lessi più una riga, non sapevo più nulla di quel che succedeva nel nostro campionato di calcio.
Finché un pomeriggio non mi accadde di affrontare un esame universitario e di averne un voto che io giudicavo inferiore a quel che avevo dimostrato e me ne sentivo terribilmente frustrato. La pativo come un’ingiustizia.
E dunque nel tornarmene a casa passai dalla libreria di Ciccio D. e Carmelo Volpe, la libreria dove noi ventenni catanesi “de sinistra” passavamo almeno una volta al giorno.
Erano le sei o le sette di sera, e Ciccio D. mi disse che sarebbero andati a casa sua a vedere in tv una partita di ritorno della Champions a Milano, una partita in cui la Grande Inter di Helenio Herrera (una squadra di cui non sapevo nulla di nulla) avrebbe cercato di riscattare contro una squadra inglese (il Liverpool) un sonante 1-3 subito a casa loro. Ripeto, erano tre o quattro anni che non vedevo più una partita di calcio.
E comunque dissi di sì, perché stare assieme a degli amici a vedere una partita di calcio mi avrebbe aiutato a placare il magone che avevo dentro. Andammo. La partita cominciò. Ovvio che io tifassi per l’Inter, e benché juventino dall’età di dieci anni. Ci mancava altro che non tifassi per la squadra italiana.
Ripeto, non sapevo nulla di Mariolino Corso, di Giacinto Facchetti, di Armando Picchi e degli altri campioni di quella squadra/monstre. Erano passati pochi minuti dall’inizio, e accadde che l’Inter dovesse battere una punizione da pochi metri di distanza della linea dell’area avversaria.
Accadde in un attimo. Quel giocatore di cui non sapevo nulla e che aveva un’andatura un tantino ciancicante colpì la palla di sinistro, la palla si alzò, curvò, scese in picchiata, affondò all’incrocio della porta difesa dal portiere del Liverpool. Una meraviglia, un capolavoro, una visione da estasi.
Così come da estasi fu tutto quello che seguì, il secondo e il terzo gol dell’Inter, una squadra di cui tutto funzionava come in un orologio svizzero. 3-0, e dunque l’Int<er passava il turno. Dio, la gioia mia e nostra. M’ero dimenticato di quel voto che ancor oggi mi brucia da quanto lo considero ingiusto. Addio, Mariolino. E grazie ancora della malìa con cui hai curato quel mio dolore di mezzo secolo fa.
mario corso zanettimario corsoiinter liverpool 1965 1
GIAMPIERO MUGHINI
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