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Marco Belpoliti per la Repubblica - Estratti
In un suo articolo pubblicato nel 1936 Carlo Emilio Gadda si occupa dei restauri in corso in Duomo a Milano.
Dopo aver specificato che la chiesa madre costruita dai milanesi è l’espressione «d’una potente collettività, nel mondo spaziale delle forme e delle opere», si chiede chi sia stato l’architetto del Duomo, interrogativo che ha occupato la storiografia senza giungere a risposta ultimativa. E proprio da questa grande impresa, simbolo stesso della città, inizia la mostra intitolata Il genio di Milano ( a cura di Marco Carminati, Fernando Mazzocca, Alessandro Morandotti e Paola Zatti, fino al 16 marzo 2025) alle Gallerie d’Italia di Milano.
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Carminati nelle pagine che introducono la sezione da lui curata nel catalogo (Edizioni Gallerie d’Italia/ Skira) racconta questa storia esemplare che ha il suo punto apicale nella costruzione del tiburio della grande chiesa. La decisione di partire a raccontare il genio di Milano dal Duomo è pertinente, poiché questa impresa, continuata per secoli – dal 1386 al 1932, e la seconda data indica il termine della facciata –, può essere elevata a paradigma della storia artistica, culturale e sociale della capitale morale d’Italia.
La prima ragione risiede nella presenza decisiva e alternata di “stranieri”, quindi nell’assenza di una firma unica, poi nella presenza indispensabile d’un promotore eccellente, Gian Galeazzo Visconti, ben presto in conflitto con gli abitanti, e nella partecipazione collettiva dei milanesi all’opera: badilanti e sterratori che si alternavano a scavare le fondamenta della futura basilica, sino a che non si trasformò in istituzione il concorso collettivo dei cittadini con la creazione della Veneranda Fabbrica del Duomo.
giuseppe diotti la corte di ludovico il moro
Sono probabilmente queste le caratteristiche del genio di Milano, genio al plurale e insieme al singolare: “foresti”, capi, coram populo e istituzioni con carattere tendenzialmente anonimo. Camminando per le sale della mostra si capisce che sono gli immigrati dal contado, dal resto dell’Italia e dall’estero a fare grande Milano, un apporto che ha conosciuto un susseguirsi di migranti eccellenti – primo fra tutti Leonardo – fino all’immigrazione vera e propria nella seconda metà del Novecento.
L’opera senza fine del Duomo sembrerebbe smentire il carattere meneghino, ben preso assunto anche dai “foresti”, fatto di pragmatismo ed efficienza, per quanto poi, come ricordano le pagine dedicate alla Milano artistica di Federico Borromeo, Sebastiano Ricci, e poi del Piermarini fino all’Appiani, la lunga durata è il risultato delle “tempestose vicende” e della “dura necessità economica” che rallentarono il “costruire tenace” del Duomo (Gadda).
Sono stati i domini stranieri, francese, spagnolo, e ancora francese nella persona di Napoleone, fino a quello austriaco, a fare di Milano una grande città? Loro certo l’abbellirono e resero ancora più elegante nella sua sobrietà dominata da un clima umido e brumoso. Del resto, la ragione per cui scesero nella penisola dopo la fine dell’Italia rinascimentale tanti dominatori dipende dalla posizione privilegiata che Mediolanum aveva nella geografia. Al centro della Lombardia irrigua, che il Gaddus descrive così efficacemente – il “dolce piano” dantesco «intersecato di fiumi e canali, verdissimo, popolato di terra», quella «serenamente chiara delle colline e dei laghi», e l’altra «più rude e scabra delle profonde valli fra gli spalti rocciosi o ghiacciati delle Alpi» –,
Milano è la vera porta d’Italia, come ricorda Morandotti parlando dell’arrivo dei pittori fiamminghi all’epoca di Federico Borromeo. Prendere Milano, da un certo punto in poi, era conquistare una parte sostanziosa della ricca Italia del passato al fine di dominare lo stivale. Una storia questa, insieme con quella seguente degli artisti veneziani venuti a portare lo spirito tardo barocco nelle collezioni milanesi, tra cui spiccano Sebastiano Ricci e il genovese Alessandro Magnasco, che viene qui narrata. Tutti forestieri come Giuseppe Piermarini, che progettò le architetture che determinano il gusto lombardo sotto gli Asburgo, definito sempre da Gadda in uno dei suoi molteplici ritratti milanesi e lombardi, «neoclassico ma nobilmente sereno» con edifici di «chiara bellezza».
Forse l’estensore della Adalgisa ha ragione nel ribadire che la dominazione spagnola, così ben presente invece nella mente dei lettori del Manzoni dei Promessi sposi, ha lasciato «tracce indubbie, ma non cospicue, nel costume, in alcune voci della parlata, e nei sereni aspetti dell’edilizia urbana e di villa». Per lo scrittore della Cognizione del dolore «i barocchi lombardi sono quasi dei barocchi attenuati: dal vincolo di una diritta e semplice spiritualità», come si scorge nella pur ampia quadreria alle Gallerie d’Italia.
Il nevrotico e bizzoso “ingegnere in blu”, come lo ha definito un altro Gran Lombardo, Alberto Arbasino, ci ricorda che non è stata la violenza, la misteriosa e carnale disperazione che si coglie nel Caravaggio, grande autore fuor di Lombardia, a formare lo stile di qui, come si comprende nelle parti curate da Fernando Mazzocca, incluso il periodo romantico. È stato invece il cattolicesimo conciliare cinquecentesco di Carlo Borromeo coi suoi santuari prealpini tra il Sesia e l’Adda e i catechismi.
Napoleone, e poi il Risorgimento, segnarono una continuità di quel genio, che è qui qualità collettiva e a tratti persiano impersonale.
A segnare il tempo dello stile milanese è infine l’“intensa attività”, leggasi industrializzazione, che si sviluppa dopo la fine del Risorgimento, raccontato efficacemente dall’altro gran romanzo lombardo, Cento anni (1859) di Giuseppe Rovani, citato da Mazzocca. La mostra si chiude con il futurismo di Boccioni, che implode nel Novecento di Mario Sironi, arrivato da Roma per incontrare la malinconia delle periferie, e l’avanguardia imprevista di Melotti e Fontana, barocchi austeri pure loro, dopo il neobarocco scultoreo di Wildt, tre autori rivisitati da Paola Zatti su si chiude il viaggio nel genio della città-capitale.
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