boom 60 mostra milano

“BOOM! 60. ERA ARTE MODERNA” - DA MODIGLIANI A PICASSO, UNA MOSTRA A MILANO RACCONTA GLI ARTISTI CHE DALLE GALLERIE PIÙ SNOB SI RITROVARONO SUI ROTOCALCHI - CAMILLA CEDERNA IRONIZZAVA SUL “RAGAZZOTTO” AMERICANO RAUSCHENBERG, LO SCULTORE ARNALDO POMODORO RICORDA GLI INCONTRI CON VIRNA LISI E NANDA PIVANO

BOOM 60 ARTE MODERNABOOM 60 ARTE MODERNA

1. QUANDO L’ARTE FECE BOOM

Natalia Aspesi per la Repubblica

 

Quanto deve l’attuale fortuna dell’arte moderna e d’avanguardia in Italia agli sghignazzi d’epoca dei casuali visitatori di mostre, all’indignazione di critici canuti e sapienti, ad Alberto Sordi che infila la testa nel buco di una scultura di Viani, alla pubblicità dell’aperitivo che mostra signore e signori eleganti in un salotto tappezzato di quadri moderni?

 

Praticamente molto, da quando una folla scalpitante di artisti impazienti di esprimere il Nuovo, e stanchi di sentirsi incompresi anche se per questo più geniali, uscirono dal chiuso altezzoso delle gallerie, delle collezioni private e di tante grandi mostre, per diventare soggetti da rotocalco.

 

Anni Cinquanta ovvio, e primi Sessanta, quelli dell’inizio del boom economico, quando la gente trovava il mondo e l’evasione dallo stesso sulle tante testate di quei settimanali allora a massima diffusione, pieni di fotografie anche a colori e divisi in due direzioni: una più colta e politica tendente a sinistra, l’altra più popolare, con articoli dedicati alle famiglie reali, ai divi del cinema, ai cantanti, a fatti di cronaca nera e rosa, tutto raccontato con uno spirito bonario, edificante, rassicurante, democristiano.

 

Boom! 60. Era arte moderna è il titolo di una mostra molto curiosa che, inaugurando nuove sale espositive, si apre martedì (sino al 12 marzo 2017) al milanese Museo del Novecento, a cura di Mariella Milan e Desdemona Ventroni, con l’allestimento curato dall’Atelier Mendini.

 

Centoquaranta opere scelte soprattutto tra quelle che i rotocalchi biasimavano (le più ardite) o lodavano (le più tradizionali), appoggiate a nuvole di specchi che rimandano a chi guarda le sue reazioni; su monitor scorreranno i ritagli dei giornali e un pannello raccoglierà le vignette satiriche dedicate al “buco”, uno dei temi che appassionavano gli artisti più ardimentosi e innervosivano i rotocalchi e il loro pubblico.

BOOM 60 ARTE MODERNABOOM 60 ARTE MODERNA

 

Erano tempi in cui i critici erano molto autorevoli, mitici padroni del mondo dell’arte, e più erano anziani e più erano temuti. Anche i rotocalchi, pur nella loro semplicità, ne avevano uno, spesso cattivissimo, il cui pensiero alto coincideva con quello più innocente dei lettori. E per esempio sulla Domenica del Corriere del luglio 1954, Leonardo Borgese sotto il titolo “Vecchiumi” definiva il percorso della XXVII Biennale di Venezia, un “noioso, disgustoso, penoso spettacolo”, e attaccava furibondo tutto, “cubismi, futurismi, concretismi, dadaismi, automatismi, spazialismi”, rimpiangendo i De Pisis, i Tosi, i Guidi.

 

Sulla facciata dell’Arengario ci sarà la grande scritta tipo fumetto, “Boom 60!” in blu e fucsia luminosi, quasi a sottolineare il senso di gioco della mostra, in memoria di un tempo in cui non si formavano come oggi code interminabili per vedere e lodare qualunque mostra anche delle più furbe, ma esisteva ancora un pubblico che reagiva secondo il cuore e una stampa che sapeva accompagnarlo con leggerezza nei meandri oscuri della retro e dell’avanguardia.

 

Ecco quindi in mostra, messe insieme secondo la visione dei rotocalchi antichi, le opere di Burri, César, Spoerri con i loro “stracci e chiodi sulla Laguna”, il “lunapark” di Baj, Cavaliere e Rotella, gli “arrabbiati in fonderia”, cioè Nivola e i fratelli Giò e Arnaldo Pomodoro; ma anche “l’arte in sartoria”, con i ritratti della allora star dell’alta moda Germana Marucelli creati da Messina e Campigli, e di quest’ultimo anche lo schizzo di un invito alle sfilate, poi i gioielli della maison creata da Scheggi e un abito dal tessuto optical disegnato da Getulio Alviani.

 

“Celebre per conglomerati pittorici quali un’enorme capra d’angora imbalsamata e campeggiante sopra un immenso collage per il suo Odalisque che è un guanciale sporchiccio su cui poggia un parallelepipedo decorato a spruzzi, macchie e fotografie di donne in costume da bagno, il tutto sormontato da una gallina livornese…”.

 

Così scrive con ironia massima la grande Camilla Cederna in un suo Lato debole del 1961 su L’Espresso,  dedicato a una mostra alla galleria milanese dell’Ariete, del “ragazzotto” americano Rauschenberg all’inizio della sua immensa fortuna. Storie di artisti in ascesa ma anche velocemente ripudiati.

 

BOOM 60 ARTE MODERNABOOM 60 ARTE MODERNA

Così Irene Brin, un’altra giornalista pure lei magnifica nel raccontare il suo tempo, testimonia su una Settimana Incom Illustrata del 1964 “l’esito catastrofico” di un’esposizione a NewYork di Bernard Buffet, elogiato sui rotocalchi sempre portati al trionfo della ricchezza come “il pittore in Rolls Royce”: “Fummo noi a fare la sua prima mostra italiana. Vendemmo faticosamente due pezzi a un ingegnere di Palermo, il quale poi mi raccontò di averli venduti comprando col ricavato tre appartamenti…

 

Seguirono la gloria, lo yacht, il castello, i miliardi, il matrimonio con Annabel e poi la decadenza”. Gli artisti di quegli anni, per quanto sublimi e sicuri del loro genio, non disdegnavano di apparire sulla stampa popolare, ricordando anche che era stato Guttuso, negli anni Quaranta, a dire che se mai fossero stati fotografati per le copertine dei settimanali, la fortuna sarebbe stata assicurata.

 

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Ecco quindi sull’Europeo Birolli che sfoglia un pacchetto enorme di mille lire, un milione in totale, vinto col premio Lissone; su una quarta di copertina di Tempo del 1954 Roberto Crippa, autore delle vorticoseSpirali, si fa fotografare quasi in ginocchio accanto alla ballerina Camille in guepiere con in testa le stesse spirali; Enrico Baj su un numero di Gente del 1964 si lascia ritrarre con il suo celebre Personaggio Urlante tra mobili antichi di casa sua, sotto il titolo “Sono il papà di trillali-trillala”.

 

Chi osava scrivere in quei due decenni ciò che i più sempliciotti ancora pensavano, per esempio delle opere di Modigliani, nei suoi anni giovanili definite orribili, o di quelle facce sghembe e con molti occhi di Picasso, ormai diventati da tempo due geni consacrati e venerati, uno defunto da più di trent’anni, l’altro vivo e vegeto, ultrasettantenne e ricchissimo?

 

RauschenbergRauschenberg

Nel 1958 Palazzo Reale di Milano dedica una grande retrospettiva al mitico ritrattista dei lunghi colli e presentandola Settimo Giorno preferisce soffermarsi sulle foto di Gérard Philipe, protagonista diMontparnasse, il film in cui interpreta il pittore, accompagnato da Lea Padovani. Raccontare di Picasso poi è cosa molto facile, con tutte quelle donne che misteriosamente lo adorano sino a suicidarsi: “Mi vuole nudo!” è il titolo sopra la foto del vecchio dal torace peloso nella vasca; “Per amore ha rinunziato a Picasso” racconta di come la sua giovane modella Sylvie, dalla celebre coda di cavallo bionda, abbia venduto un suo famoso ritratto dell’artista per curare il marito; mentre sulla copertina di

Vie Nuove con il titolo “L’eterna giovinezza” lui bacia in bocca una signora ingioiellata. Non si sa se a un certo punto siano stati i divi dello spettacolo a sfruttare quelli dell’arte o viceversa, ripresi in numerosi servizi fotografici ovunque: in mostra ci sono almeno tre Lollobrigida di Sassu, Cassinari, Bettina, due Anna Magnani di Levi e Guttuso, una Sandra Milo di Messina. Ma certo il massimo delle modelle lo raggiunge il da molti deprecato Annigoni, detto “il pittore delle regine”, per cui Elisabetta II ha voluto posare, e quel fortunato ritratto sarà poi riprodotto su milioni di francobolli.

RauschenbergRauschenberg

 

La grande diffusione dei rotocalchi in quegli anni ha fatto diventare di moda darsi all’arte visiva possibilmente molto astratta, e nella mostra dell’Arengario c’è anche l’opera Toros di Tony Dallara, cantante anni Cinquanta dagli urli molto apprezzati. Si deve anche a quella stampa la nascita dello chic del collezionismo diffuso:

 

“Un altro simbolo di prestigio considerato oltre che tale, anche uno dei migliori investimenti del momento è il quadro moderno: sono state così le più importanti aste di questi tempi a rivelare accanto ai meno recenti, anche i nuovissimi miliardari” (Camilla Cederna, L’Espresso, novembre 1961).

 

2. I CRITICI NON ERANO PRONTI AI NOSTRI ESPERIMENTI

Chiara Gatti per la Repubblica

 

Seduto all’ombra di tre colonne dai simboli arcaici, Arnaldo Pomodoro ha l’aria di un alchimista della scultura. La sua pietra filosofale è il bronzo, capace di trasformare in oro sfere, dischi e piramidi monolitiche.

 

«Ma negli anni Sessanta non potevo permettermi la fonderia. Usavo il piombo, più economico. Saldavo con la fiamma ossidrica piccole strutture costruite attorno ad anime di legno». Oggi, a novant’anni compiuti, che festeggerà con una mostra a novembre al Palazzo Reale di Milano, Pomodoro guarda al passato con un po’ di nostalgia.

 

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Erano davvero favolosi quegli anni?

«Estremamente vitali. Milano, Roma, Venezia avevano un’impronta internazionale, erano città d’avanguardia. Nell’arte, come nel teatro e nella musica. Artisti e compositori americani venivano a fare ricerca grazie al programma Fulbright che offriva borse di studio per favorire il dialogo fra Italia e Usa».

 

E Parigi?

«Aveva passato il testimone a New York. A Parigi conobbi Giacometti, celebrato poi da una sala alla Biennale del 1962. Era il padre putativo della scultura del Novecento. Ma l’asse era cambiato e il nuovo orizzonte era Oltreoceano».

 

Cambiò anche la scultura?

«Si liberò dalle gabbie espressive dell’estetica di regime. Dovevamo uscire dal clima celebrativo che si era radicato negli anni della guerra. Il grande illuminatore fu Fontana, spirito audace, ricco di fantasia. Ci ha liberato tutti».

Parlando di suo fratello Giò, alla Biennale del ‘62, Buzzati scrisse (con ironia) che le sue sculture si lucidavano col sidol.

«Al contrario, il sidol le rovina! Per le nostre sculture, solo olio di gomito. La critica forse non era preparata alle sperimentazioni. Si tentava di spremere la mente per trovare nuove idee e altri linguaggi. Anche recuperandoli dal passato. Io avevo (re)inventato una tecnica antica: incidevo ossi di seppia per farne stampi e colarvi il piombo o l’argento».

 

Il suo rapporto con gli scrittori?

ARNALDO POMODORO 1ARNALDO POMODORO 1

«Ricordo che Ginsberg arrivò a Milano di ritorno dall’India. Con Nanda Pivano e Ettore Sottsass organizzammo nel mio studio un incontro. Lui, vestito di bianco come un guru, declamava poesie accompagnandosi con un suono di campanelli, un canto sciamanico. Nanda era riuscita a portarlo in salotti importanti e lui incantava perfino le signore della buona borghesia o gli intellettuali snob».

Nel suo studio passarono anche attori?

«Quando Monica Vitti era a Milano per recitare Dopo la caduta, il dramma che Miller aveva dedicato a Marilyn, decidemmo di dare una festa nel mio studio con un gruppo di musicisti rock che ricordavano i Beatles. Arrivò la polizia tanto era forte la musica. C’erano anche Gian Maria Volontè, la Gravina e Lou Castel reduce da I pugni in tasca di Bellocchio. Le arti si mescolavano. Non come oggi che si vive per compartimenti stagni».

 

È vero che la Pivano amava i suoi gioielli?

«Nanda vestiva fuori da ogni schema. Completava l’abbigliamento con decori etnici e primitivi. Per lei ho realizzato un bracciale-scultura quasi importabile, che però riusciva a indossare con grazia. Tempo dopo, decise di ridarmelo. “Regalalo a una donna che ami” mi disse».

Ricorda l’invasione degli americani in Laguna?

«Fu entusiasmante conoscere Rothko o de Kooning. Peggy Guggenheim fu la prima americana che mi comprò un lavoro. L’idea che fosse lei ad acquistare un mio pezzo equivaleva a un sogno».

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Ma lei vendeva già in America?

«Feci una mostra nel 1962 a Los Angeles. Vennero Angela Lansbury e Virna Lisi, che Hollywood stava cercando di lanciare al posto di Marilyn. Era bellissima e comprò una sfera».