DAGOREPORT - L’ASSOLUZIONE NEL PROCESSO “OPEN ARMS” HA TOLTO A SALVINI LA POSSIBILITA’ DI FARE IL…
Massimiliano Gallo per il Corriere dello Sport
Lo chiamavano er fettina. Questa storia del figlio del macellaio l'ha perseguitato, come se fosse un disonore. Lui ha sempre abbozzato. Uno dei suoi sorrisi miti che chissà quanti significati hanno avuto. Non attraversi oltre cinquant'anni di calcio se non impari a passare oltre. Ma Claudio Ranieri, romano di San Saba, dal calcio non si è mai lasciato cambiare.
Quando firmò l'impresa del secolo, anno 2016, la vittoria della Premier League col Leicester, se ne uscì così: «Il mio Leicester ricorda il Catanzaro di Di Marzio, quello di Palanca, Silipo e gli altri. Capisco non sia un grande esempio, meglio Guardiola. Ma quella era una squadra come questa, un gruppo di amici che viveva insieme».
A Catanzaro era un difensore roccioso, di quelli che menavano. Sul successo di Leicester ci avrebbero costruito una carriera mediatica. Lui l'anno seguente fu esonerato e subito si rimise in pista. Era abituato a fare così, sin da ragazzino.
«S'è chiuso un cerchio». Un cerchio che è l'Aleph di Borges. Dentro c'è di tutto. Con la salvezza del Cagliari ha sentito che era giunto il momento di smettere. Il cerchio si era aperto nel 1988.
Quando i sardi erano in Serie C e lì, nei bassifondi del pallone, il presidente Tonino Orrù incrociò questo giovane allenatore che guidava il Campania Puteolana. Il Cagliari perse 1-0 e Orrù rimase colpito soprattutto dal pre-partita, da quel tecnico che notò il riscaldamento sciatto e presuntuoso degli avversari e caricò i suoi. L'estate successiva,
Orrù lo andò a cercare. Non aveva molti soldi, il club navigava in bruttissime acque. Ranieri disse: «A Cagliari vengo anche gratis». In due anni li portò in Serie A. Domani contro la Fiorentina sarà la panchina numero 1.400 della sua carriera. Non molto tempo fa, ha detto: «Io cambio come cambia il calcio. Mi adeguo, mi aggiorno con le ultime tendenze. La mia forza è proprio il cambiamento. Mi sento un allenatore moderno, europeo».
Un allenatore europeo. La sua è stata una carriera lunga, ricca e pionieristica. Il nostro è un mondo infame. Ti appiccicano un'etichetta e hai voglia a sbatterti, non te la tolgono più. Soprattutto se sei una persona educata, se in ogni tuo comportamento non dimentichi mai che i tuoi interlocutori sono innanzitutto persone, anche i tuoi avversari. Ranieri è stato uno dei primi italiani ad andare ad allenare all'estero. A Valencia nel 1997. Poi una breve parentesi all'Atletico Madrid. E da lì quattro stagioni al Chelsea. Poi cominciò l'era Abramovich e il magnate russo scelse Mourinho come uomo immagine.
corriere dello sport prima pagina speciale in sardegna su ranieri
Era il 2004. E Ranieri venne già considerato finito. Finito e perdente. Viene da ridere. Ha accettato ogni tipo di situazione senza mai fiatare. A chi si affidò Ferlaino per gestire il dopo Maradona? A chi pensò la Juventus quando tornò in Serie A dopo l'anno di purgatorio in cadetteria? Lui li portò al terzo posto tra critiche feroci e l'anno successivo venne persino esonerato.
A chi si rivolse, disperata, la famiglia Sensi all'inizio della stagione 2009-2010, zero punti dopo due giornate e Spalletti che si era dimesso lasciando il solito spogliatoio da far west? Al sor Claudio l'unico che poteva raccogliere quella rogna. E piano piano, tra un sorriso e un rimbrotto, rimise in moto la meravigliosa macchina da calcio e perse uno scudetto di cui Roma ancora non si capacitano.
Non fu Roma-Lecce ma poco ci manca. Fu Roma-Sampdoria. Barbas quella sera fu interpretato da Pazzini. Chissà se in quel momento e per un attimo anche lui cedette a quella mascalzonata del perdente. No, non vi cedette mai. Strizzò gli occhi, strinse i pugni e andò avanti. Gli interisti lo ricordano in lacrime dopo una vittoria in casa del Chievo che fu la fine di un incubo. E poi Monaco, dove li trascinò dalla Serie B francese al secondo posto in Ligue1. Fino al Leicester. Qualche anno prima, Vardy faceva l'operaio, Kanté giocava in terza divisione in Francia e Mahrez in quarta. Chissà se un giorno il cinema riuscirà a rendere il senso epico di quell'impresa.
Ha ricevuto applausi in ogni stadio. Un giorno l'Olimpico si alzò in piedi ad applaudire, la sua inquadratura era finita sul tabellone. E ci volle la moglie a scuoterlo, a dirgli di salutare. Lui era impietrito dall'emozione. Non se l'aspettava. È tornato a Cagliari. Li ha riportati in Serie A. Ha regalato a Gigi Riva una delle ultime gioie della sua vita. E ora, dopo la salvezza, ha deciso che poteva bastare.
Ci piace ricordarlo con questa frase: «Non sopporto che per forza di cose si debba iniziare l’azione dal basso. Non lo capirò mai. Tanto poi tutti studiamo come impostano gli altri e cerchiamo subito di rubare palla. All’oratorio giocavo a basket e il gioco era prendere e tirare: perché devo tenere per ore la palla invece di farla arrivare il prima possibile a quelli che negli ultimi 20 metri fanno la differenza? L’azione più bella è rinvio del portiere, tiro, gol. Rapido e indolore». Quanto ci mancherà.
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