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ROBINHO, TROPPA BIRRA E POCA TESTA: LA STORIA DELL’EX ATTACCANTE BRASILIANO, DALLA BENEDIZIONE DI PELE’ FINO AL CARCERE CON L'ACCUSA DI STUPRO - LE NOTTI BRAVE DI MADRID, IL MILAN DOVE NE COMBINAVA UNA PIÙ DI BERTOLDO QUANDO USCIVA DAL CENTRO SPORTIVO DI MILANELLO E QUEL MISTERIOSO RAPIMENTO DELLA MADRE: I DELINQUENTI LA TENNERO IN OSTAGGIO UN MESE E MEZZO E LA LIBERARONO DOPO IL PAGAMENTO DI OTTANTAMILA EURO…
Andrea Schianchi per gazzetta.it
Il problema di Robinho è che non ha mai saputo distinguere il "dentro" e il "fuori". La vita, per lui, è uguale, che la si debba "giocare" su un campo di pallone, nelle strade del quartiere dov’è cresciuto, in mezzo agli stracci e alle immondizie, o in qualche quartiere residenziale dove i soldi guadagnati a palate gli hanno consentito di abitare.
Esagerazioni, spacconate, maleducazione e poi, certo, anche grandi colpi di genio, perché Robinho con i piedi ci sapeva fare, momenti di assoluta fantasia, dribbling che lasciavano a bocca aperta avversari e pubblico.
Ma nel giudizio non si può tralasciare la prima parte, e cioè quella del ragazzo che non ha mai avuto la forza e il coraggio di diventare un uomo, e come conseguenza di ciò è incappato in mille guai. Ora si trova in un carcere dello Stato di San Paolo, in Brasile, dove deve scontare una condanna per stupro, reato avvenuto in Italia. Ha più volte chiesto la scarcerazione, ma le sue parole sono rimaste inascoltate.
La sua carriera è cominciata con uno sponsor importante, il più importante che, all'epoca, si potesse avere nel mondo del calcio: Pelé. Fu O Rei a portarlo al Santos, quando era responsabile del settore giovanile, nel 1999. "La prima volta che ha toccato la palla sotto i miei occhi - disse Pelé - mi è venuta la pelle d'oca. E quasi da piangere. Il suo dribbling è devastante, pari solo alla sua semplicità. Mi sono rivisto in lui". Uno che comincia con questa lettera di presentazione non può sbagliare.
E difatti Robinho partì alla grande, vinse con il Santos, incantò la torcida e conobbe la gloria. Il guaio fu che, oltre alla gloria (e alla birra che si scolava...), conobbe anche i soldi e pensò che con quelli tutto gli fosse concesso. A chi ha vissuto nella povertà, mamma casalinga e papà idraulico, tanti fagioli e poca carne da mettere in tavola, capita che le prime banconote facciano girare la testa e inducano a comportamenti non proprio esemplari. Lui fece il bullo e le bande dei bulli, delinquenti veri, lo presero di mira: nel 2004 rapirono la mamma, la tennero in ostaggio un mese e mezzo e la liberarono dopo il pagamento di ottantamila euro.
Il trasferimento in Europa, gli dissero gli amici e le persone a lui più vicine, era la soluzione per allontanarsi dai problemi. Il Real Madrid lo acquistò nel 2005 per trenta milioni di euro e gli consegnò la maglia numero 10. Una stella. Pelé era orgoglioso di lui, forse il Brasile aveva davvero trovato l’erede di O Rei. Ma anche a Madrid, dove giocò 101 partite e segnò 25 gol in tre anni, Robinho dimostrò che non era cresciuto.
Non tanto dal punto di vista calcistico, ma umano. Tutte le sere in giro per locali, feste di qua e feste di là, notti trascorse ora tra le braccia di una ballerina e ora tra quelle di un’aspirante modella. Non proprio la vita da professionista che avrebbe dovuto condurre.
Ovvio che i dirigenti del Madrid si lamentarono di questi comportamenti e Fabio Capello, suo allenatore nella stagione 2006-07, non si fece scrupoli quando dovette punirlo per un'infinita serie di ritardi agli allenamenti. Il genio, in campo, si vedeva. Ma quando usciva dallo stadio era notte fonda.
Nell’estate del 2008 il Chelsea fece di tutto e di più per acquistare Robinho. Vendette addirittura le maglie prima ancora che fosse firmato l’accordo con il Real Madrid e gli spagnoli si arrabbiarono a tal punto che decisero, proprio negli ultimi giorni di trattative, di cedere il brasiliano non più ai Blues ma al Manchester City. Costo dell’operazione: 42 milioni di euro.
Memorabile fu la prima uscita di Robinho da neo-acquisto del City: "Sono molto felice di essere un giocatore del Chelsea". Sgomento tra i giornalisti e i dirigenti dei Citizens. Chissà se, tra una birra e l’altra, a Robinho avevano raccontato del cambio di programma, dell’affare saltato con il Chlesea e dell’approdo al City, o se invece davvero pensava di trovarsi a Londra anziché a Manchester.
Fatto sta che, colpa forse del tempo e del cielo sempre grigio, Robinho non incantò in Inghilterra. Ci rimase due anni, 41 partite e soltanto 14 gol. La sua stella stava spegnendosi. Si disse che era vittima della saudade, che si tira sempre fuori quando un calciatore brasiliano non ingrana. La verità era che Robinho non aveva legato con l’ambiente e che le regole imposte dall’allenatore Mark Hughes gli stavano troppo strette.
Dopo il fallimento inglese venne l’Italia, il Milan di Galliani e Berlusconi lo accolse nel 2010 e fu subito amore per questo campioncino che faceva cose meravigliose sul campo, e pazienza se poi ne combinava una più di Bertoldo quando usciva dal centro sportivo di Milanello.
Fu protagonista nello scudetto del 2010, guidato in panchina da Massimiliano Allegri, ma si capiva che gli mancavano la costanza, l’equilibrio, la continuità per diventare ciò che Pelé aveva immaginato. Anche con la maglia della Seleçao non riuscì mai a prendersi la scena e andò incontro a delusioni brucianti.
Chiusa l’avventura milanista, s’imbarcò su un aereo che lo portava in Cina: soldi, soldi, soldi. Robinho aveva fatto la sua scelta: non sarebbe diventato l’erede di Pelè, ma una slot-machine per far felice se stesso e chi gli stava vicino, una specie di corte dei miracoli che di certo non lo aiutava. L’impressione che resta oggi è quella di un enorme talento sprecato. E, nello stesso tempo, vien da pensare che, prima di essere campioni, con un pallone tra i piedi o con un volante tra le mani, o con una racchetta o con un paio di sci, fate voi, si deve essere uomini.
Cosa che Robinho non è mai diventato. La speranza, ma è soltanto una speranza e nulla di più, è che l'esperienza del carcere lo abbia cambiato, o lo stia cambiando, che abbia davvero capito che cosa si deve fare per vivere, come ci si deve comportare, che cosa si deve dire. Non con l'obiettivo di diventare un campione, ormai quel tempo è stato bruciato, ma con l'idea di potersi guardare la mattina allo specchio e dirsi finalmente soddisfatto.
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