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OGNI MATTINA UN KENIANO SI SVEGLIA E PER CORRERE PIÙ DEL LEONE, SI DOPA! LA SECONDA PARTE DEL RAPPORTO WADA SUL DOPING NELL’ATLETICA PUNTA IL DITO SUI MEZZOFONDISTI DEL KENYA - SOSPETTI ANCHE SUGLI ATLETI DEL MAROCCO - LE TANGENTI PER EVITARE I CONTROLLI

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Cosimo Cito per “la Repubblica”

 

«Sarà un giorno sconvolgente». Non pesa le parole Dick Pound, non può. L’epicentro del probabilissimo terremoto che si abbatterà oggi sull’atletica mondiale è Monaco di Baviera. Lì la Commissione della Wada, illustrando il nuovo rapporto su orrori, coperture e connivenze tra Iaaf e alcune federazioni nazionali, darà un ulteriore colpo di mannaia alla credibilità di un sistema di controlli antidoping che, almeno tra il 2001 e il 2012, ha funzionato a piacimento, più da qualche parte, molto meno altrove.

 

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In quell’altrove ci sarebbe soprattutto il Kenya con i suoi eroi del mezzofondo, aiutati dietro pagamento di tangenti ad evitare controlli a sorpresa o, nei casi peggiori, a risultare puliti. A fine novembre era già saltata la testa del presidente federale di Nairobi, oggi però rischiano gli atleti: «Potremmo agire direttamente sui risultati sportivi» ha asserito Pound. Diciotto, almeno, tra i 146 atleti dai dati sospetti svelati da un’inchiesta di Ard e Sunday Times dell’agosto scorso, provengono dalla Rift Valley.

 

Molti farebbero capo al centro di allenamenti di Iten, alcuni di loro erano seguiti dal leggendario missionario irlandese Colm O’Connell, l’allenatore soprattutto del primatista mondiale degli 800 David Rudisha. Kenya ma non solo: secondo le ultime indiscrezioni, anche le federazioni nazionali e le agenzie antidoping di Etiopia e Marocco avrebbero pagato tangenti a Diack e alla sua pletora perché i propri atleti uscissero immacolati.

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Dal 2006 al 2012, non a caso, nessun atleta di nome proveniente dai due paesi è inciampato in controlli a sorpresa o fuori competizione. Ma ci sarebbero anche altre federazioni nelle mire della Commissione interna della Wada, diretta dal canadese Dick Pound.

 

«Lo scandalo russo è solola punta dell’iceberg» raccontò a novembre, in occasione della pubblicazione del primo report, l’ex presidente dell’Agenzia mondiale antidoping. Allora fu la Russia a uscire coventrizzata dalle conclusioni della Commissione. Al centro del mirino, stavolta più che a novembre, sembra esserci anche Sebastian Coe, l’attuale presidente Iaaf. Il successore di Diack sapeva del fiume di denaro e marciume che scorreva tra Mosca e Montecarlo? Era lì, ha scritto il Times, è impossibile che non sapesse.

 

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Intervistato dalla Cnn, ieri il baronetto ha allestito un tentativo di difesa: «Parlando di quell’epoca, facciamoci qualche domanda: i risultati anomali del sangue sono stati indagati? Sì. Sono state comminate sanzioni? Sì. Abbiamo mai nascosto qualcosa? No». Un fitto scambio di email del 2009 tra l’ex segretario generale della Iaaf Pierre Weiss e il presidente federale russo Balakhnichev svelerebbe ben altri panorami: la Iaaf era a conoscenza della situazione russa ma non ha mosso un dito.

 

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Ad annegare nel torbido di uno scandalo definito da Pound «peggiore di quello che in questi mesi ha devastato la Fifa, il peggiore mai visto nella storia delle istituzioni sportive» potrebbe essere dunque proprio Sebastian Coe: il suo trono, già sforacchiato da accuse di conflitto d’interessi per i suoi rapporti con la Nike, spuntate in occasione dell’assegnazione dei Mondiali 2021 a Eugene, vacilla pericolosamente.