DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Giancarlo Dotto per Dagospia
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Quasi impossibile da raccontare. Tanta dismisura pretende dismisura. L’eccesso chiama eccesso. Dopo trenta minuti e cinque gol tedeschi non ho avuto bisogno di spalancare la finestra per sentire un gigantesco, immane, stupefatto gemito salire dalle viscere connesse di tutto il pianeta: “Non ci credo!”, “I don’t believe it”, “Não acredito”, ”Ich glaube es nicht”. Questa non è stata una partita, ma un saggio straordinario, il migliore mai scritto, sull’emotività come grandezza, disordine, abisso di una nazione intera. Una terra eternamente in trance.
Per capire non fidatevi degli addetti ai lavori o dei due pupazzetti ‘cool’ nello studio di Sky, guardatevi un film qualsiasi di quel genio di Glauber Rocha. Il Brasile si è suicidato fuori prima di suicidarsi in campo. Prima di consegnarsi al carnefice. Una resa che sfiora il piacere dell’umiliazione. Perché la storia è questa, duecento milioni di persone si sono prosciugate in un febbrile immaginario focalizzato sulla vertebra offesa di Neymar. Che, da invertebrato, è diventato virale (andò peggio a Lady Diana che dovette sfracellarsi contro un pilone).
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Estratto dalle sue gloriose mutande, Neymar è diventato come il fazzoletto di Desdemona, l’ossessione di un Paese intero. Una volta sparito di scena ha invaso la scena, onnipresente, ferito, ospedalizzato, celebrato, che parla alla nazione, appare alla nazione, lo ritrovi a migliaia sugli spalti, nelle maschere della gente, verniciato, issato, una specie di Madonna per niente laica.
Arrivano esausti i brasiliani nel mirino del killer. Una squadra che vede solo quello che vede, che sente quello che sente e tocca solo quello che tocca, che sta sempre un gradino sotto il livello dell’estasi persino quando suona Deutschland uber alles. Non perdono le staffe. Sanno quelle che devono sapere. Di essere una grande squadra.
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Freddezza e qualità. Il mondo capovolto, la tecnica è tutta dalla parte Germania. Doveva essere un Brasile fisico. Non è stato nemmeno questo. A cominciare dal suo presunto semidio, David Luiz, un minuto da tigre, il resto da gattino bagnato e senza tetto. Una squadra contro un’accozzaglia di orfani. Orfani di un feticcio virale, Neymar, ma ancora di più orfani di Thiago Silva, il vero assente di questa squadra. Mezz’ora per annientare quattro anni di attesa. Quando ci hanno provato, nel secondo tempo, a rimettere insieme le briciole dei poveri, uno straccio di dignità, hanno trovato il superuomo, Neuer.
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Sul 6 a 0 e poi sul 7 a 0, sguardi penosi invocavano il getto di un asciugamano pietoso che non poteva arrivare. Arriva il gol di Oscar, ma è solo uno sfregio che sottolinea il disastro. Un autogol. E, mentre Low amplificava la sconfitta con la sua inaudita sobrietà, Filippone Scolari sembrava una volta per sempre quello che è, il contadinone veneto che credevi furbo e scopri mona. Alla fine sono lacrime e preghiere. E qualche fischio. Il Brasile non rinuncia mai a se stesso.
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Una supplica da chi ama questa terra. Non dategli mai più un mondiale in casa al Brasile. Peggio di stasera, forse, la sconfitta in finale del ’50, contro l’Uruguay di Barbosa. Peggio di stasera, forse, sarebbe stato perdere in finale contro l’Argentina di Messi. Il Brasile non perdeva in casa una partita ufficiale dal 1975. Ma questa non è una sconfitta. Questa è l’ennesima, malinconica favola di un Paese straordinario, ricco di tutto, nella sua epica sfida di darsi il destino che si merita. Destinato da sempre a diventare un paradiso in terra, sempre vicino a guadagnarsi il suo lieto fine, ma condannato all’infelicità.
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