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Achille Bonito Oliva per “la Repubblica”
Henri Matisse smentisce l’etica progettuale di gran parte degli artisti che operano nei primi decenni del ventesimo secolo. Se in architettura per Adolf Loos l’ornamento è un delitto, per il grande pittore francese invece è la conferma di una potenzialità espressiva capace di portare tutto alla superficie, segni e colori sapientemente orchestrati sotto la direzione dell’artista. «Gli arabeschi – scriveva – non sovraccaricano mai i miei disegni, ma fanno parte della mia orchestrazione del quadro».
L’opera diventa il frutto di una vera e propria iconografia stereofonica che trova nella superficie del quadro accoglienza e distribuzione. Non c’è più profondità prospettica che risucchia al suo interno l’alfabeto visivo che, invece, trova una fluidità stabile nello scorrevole supporto della pittura, disegno o collage. Il percorso creativo di Henri Matisse è segnato dalla iniziale attenzione verso il pointillisme di Paul Signac, l’uso del colore di Paul Cézanne ed il nomadismo di Paul Gauguin aperto al vagabondaggio tra altre culture, oltre quelle occidentali.
Il suo superficialismo è fomentato da una forte attenzione verso il fattore luminoso, stemperato nell’uso del blu e del verde che rendevano liquida ogni visione.
La dance e La musica ( 1911) installata in casa Schukin sono l’emblema del suo slittamento verso un astrattismo al limite della figurabilità e l’adesione verso i linguaggi che sviluppano movimento e metamorfosi della forma.
L’apertura verso l’arte islamica, abbondantemente collezionata al Louvre, e l’esposizione mondiale del 1900 gli permettono di scoprire l’arte musulmana nei padiglioni della Turchia, Marocco, Persia, Tunisia, Algeria ed Egitto. La scoperta dell’arabesco lo libera da ogni tentazione per il profondo e gli permette viaggi verso un’arte decorativa per niente ornamentale.
Dal soggiorno in Algeria (1906) ritorna carico di ceramiche e tappeti da preghiera e da quello in Italia (1907) con una forte emozione estetica per gli affreschi visti a Firenze, Arezzo, Siena e Padova. Ma è Giotto che provoca in lui il bisogno di una nuova orchestrazione della pittura, un sentimento rinnovato nei confronti del segno e del colore.
Sempre più in Matisse si consolida un’idea compositiva della pittura e del disegno dominati da un’imperiosa direzione orchestrale. L’arabesco diventa il felice strumento che gli permette un movimento aperto all’impiego di una geometria della linea curva. La superficie diventa lo spazio di una risonanza cromatica che richiede sempre una pluralità dell’alfabeto visivo.
«Un tono non è che un colore, due toni sono un accordo», dichiara Matisse. Consapevole che il linguaggio adoperato è sincronico e polivalente sotto la direzione di una mano che vuole costruire una felice dissonanza e una fertile rappresentazione del visibile. Affermazione di una creatività che viaggia attraverso molteplici geografie culturali, per confermare la consonanza di una visione del mondo segnata dall’insita spiritualità dell’arte.
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