DAGOREPORT - CHI L’HA VISTO? ERA DIVENTATO IL NOSTRO ANGOLO DEL BUONUMORE, NE SPARAVA UNA AL…
Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia
Nella scena madre di “Gravity” l’astronauta, un logorroico George Clooney alla sua ultima partita nello spazio, prima di mollare la fune che lo tiene in vita e lasciarsi cadere nel vuoto immane della galassia, dice a Sandra Bullock che si ribella: “Devi imparare a lasciar andare”. Dal loro mondo, i giansenisti raccomandano che “bisogna abbandonare le cose che ci abbandonano”.
Non so se Francesco Totti legge i giansenisti o ha visto il film di Alfonso Cuaròn, di sicuro lui non ci sta a mollare la fune, a farsi inghiottire dal suo buco nero, che sono i quarant’anni, l’addio al pallone e dunque alla vita. Francesco non lascia l’ultimo lembo di fune, non abbandona ciò che lo ha abbandonato. Insiste, resiste. Sopporta piccoli e grandi oltraggi.
In nome di cosa? Più taciturno, ma anche più ostinato di Clooney. Il mio amico Sandro Piccinini, uno che di calcio e di campioni ne sa come pochi in Italia per amore filiale e amore tout court, dice che nulla è così godibile per un grande giocatore come gli ultimi morsi a una mela ormai arrivata al suo torsolo. Chi è senza peccato rinunci alla sua ultima mela. Dice anche che è sacrosanto lasciare al campione il diritto di prolungare all’infinito questo piacere scavato nell’agonia.
francesco totti ed el sharaawy roma real
Interessante opinione. Io dico, ma forse sbaglio, che Francesco, il più grande calciatore della storia romanista, uno dei più grandi in assoluto, rischia di consegnarsi a un non lieto fine che fa a pugni con la grandezza della sua storia. Perché lo fa? Amore, avidità, il non sapersi immaginare o sentirsi altro? Si sente ancora calciatore? Un delirio?
Affari suoi. Nessuno scagli pietre o mele. Io penso semplicemente una cosa, che l’unico senso della vita sia nel conferire una dignità alla propria storia nel mondo, sforzo ancora più nobile quanto più è assurda la vita. Che ci sta anche il buttarsi via, il fare di sé una macchietta terminale alla Buffalo Bill, purché iscritta in una narrazione grandiosa.
E, invece, Checco Francesco sta zitto. Al massimo, mugugna o smorfia. Il suo contratto con la Roma, cioè con la vita, scade a giugno. Lui, sull’orlo dei quaranta, vorrebbe continuare un altro anno o forse due, dicono. James Pallotta medita e rumina. Sembra chiaro che più di qualcosa non lo convince. Nessuno come lui avrebbe bisogno in questo momento di una facile demagogia per vellicare la piazza.
Luciano Spalletti non fa sconti. Si è caricato la Roma sulle spalle, lo ha fatto con l’energia bruta del titano ma anche con la delicatezza dell’amante che protegge la sua Fosca improvvisamente derelitta e ripudiata dai suoi stessi tifosi. Lui non fa sconti a nessuno, nemmeno a se stesso.
Totti tace ed è un silenzio ben poco innocente. Perché lui tace, ma parlano, fin troppo, i seguaci che sono un esercito, in una città che è più tottista che romanista. Due concetti che dovrebbero stare insieme e oggi invece sono conflitto puro. Muro contro muro. I quattro minuti contro il Real Madrid hanno riacceso il tormentone. Una giostra ammorbante. Agonia su agonia.
Migliaia di adepti veri e presunti morbosamente attenti a captare il lamento, il sospiro, la malinconia, o sarà ironia? Il silenzio che parla. La battuta che dice o forse non dice. “Che ce fai con me ormai?” al cronista spagnolo, poveraccia comparsa di un romanzaccio tutto romano. Domanda che si potrebbe rivoltare a specchio: “Che ce fai France’ con te?”.
E’ il mondo a essere crudele con Totti, o Totti con se stesso? Che significa rispettare un campione? Tifare perché molli l’ultimo filo che lo tiene legato a un mondo che non è più il suo, rifiutarsi di assistere a passi e movenze che bestemmiano il ricordo o lasciarlo gocciolare, il campione, come un rubinetto nel deserto? Questo sipario lasciato ostinatamente aperto su cosa? Ci sono le mutande e mutande. Quelle di scena e quelle di quando stai nel camerino alias spogliatoio. Non sono le stesse mutande.
La sua era una storia perfetta. La maglia come seconda pelle. Impastata di sangue e di destino. Francesco Totti. Cinque sillabe perfette, a scandirle o a dirle tutte d’un fiato. Sì, uno di famiglia. Il Cinquesillabe dal culo basso e due piedi che cantano.
Ci si può onestamente confrontare su come è giusto che finisca un campione, senza scadere nella fogna dei social dove si vomita naturali senza nemmeno lo stoicismo di ficcarsi due dita in gola? Sono cazzi suoi o anche nostri? Appartiene solo a se stesso il mito o anche a noi, che lo abbiamo inventato tale, perché senza mito non possiamo esistere?
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