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Luca Beatrice per “il Giornale”
E così Francesco Vezzoli - che in verità fa un po' la corsa su Cattelan, nel senso che si sente in dovere di misurarsi anche lui con le stesse imprese del collega - dal 29 gennaio sarà ospite del Museion di Bolzano non solo nelle vesti di artista con la prima retrospettiva di scultura, ma anche in qualità di Guest Curator.
Come interverrà sulle collezioni non è ancora chiaro, però è molto interessante che uno dei più noti artisti italiani all' estero senta il bisogno di «cambiare mestiere» pur temporaneamente.
Vezzoli, con ragione, sostiene che i curatori italiani oggi contino molto di più degli artisti: ecco giustificato il motivo della sua decisione, tanto per stare sempre sul pezzo.
francesco manacorda tate liverpool
In effetti critici e curatori del Bel Paese stanno facendo ottime figure in giro per il mondo.
La triade stranota - composta da Carolyn Christov-Bakargiev, che dopo Documenta e Biennale di Istanbul ha deciso di tornare in Italia prendendosi GAM e Castello di Rivoli a Torino; da Francesco Bonami, che ha avuto una lunga esperienza americana e recentemente si è occupato di mercato con l' asta di arte italiana da Phillips; da Massimilano Gioni, saldamente al New Museum di New York dopo i fasti della sua ottima Biennale di Venezia - compete ai massimi livelli con i vari Obrist, Hanru ed Enwezor.
Forse sono stati loro a funzionare da molla per le generazioni successive: a consultare la mappa di chi conta nel sistema dell' arte internazionale troviamo infatti diversi compatrioti, dando così ragione a chi negli scorsi anni ha parlato di fuga di cervelli, perché sembra proprio che oltre confine si lavori meglio, più protetti e con più soldi.
I nomi? Andrea Bellini, dopo l' incerta codirezione di Rivoli, è stato assoldato dal Centre d' art contemporaine di Ginevra. Francesco Manacorda, suo successore alla fiera Artissima di Torino, da diverso tempo dirige la Tate di Liverpool.
Mario Codognato, figlio di un ricco collezionista, è a capo del Belvedere di Vienna e nella stessa città austriaca c' è anche il romano Luca Lo Pinto alla Kunsthalle. Lorenzo Benedetti ha curato De Appel, spazio di tendenza ad Amsterdam prima dell' improvviso licenziamento l' autunno scorso, ed ancora in Olanda lavora Francesco Stocchi al Boijmans von Bruningen di Rotterdam.
Una lista un po' maschilista, ma c' è spazio pure per le donne: Chiara Parisi è a La Monnaie, nuovo museo di Parigi, mentre Cecilia Alemanni, compagna di Gioni, dirige il programma della High Line Art di New York. Appartengono alla generazione dei trenta-quarantenni, sono brillanti e destinati a una lunga carriera.
A fronte di tutta questa italianità, non si riesce però a capire come mai gli artisti italiani loro coetanei siano in forte sofferenza e, a differenza di curatori e critici, non contino pressoché nulla nel panorama mondiale. Nessuno, insomma, ci sta dicendo chi c' è dopo Cattelan, Beecroft e Vezzoli, qualche emergente su cui puntare, qualche talento da far crescere e incoraggiare.
Per i loro predecessori è stato normale scegliersi un gruppo di artisti, seguirli e imporli.
Da Celant con l' Arte Povera a Bonito Oliva con la Transavanguardia. Persino negli anni '90, molto più incerti, i critici svolgevano azioni di militanza: i loro artisti erano compagni di strada, si costituivano tendenze e sembrava che la fortuna di uno fosse legata a quella dell' altro.
Il curatore amava «sporcarsi le mani», sondare il terreno alla ricerca di materiale magmatico con il gusto del rischio e della scommessa. Qualche volta andava bene come con Stingel e Cattelan - altre meno, ma comunque l' impressione era quello di un lavoro coeso e autentico.
Oggi non è più così. Ai curatori italiani non interessa fare gioco di squadra. Convinti sostenitori della globalizzazione, di un' arte senza identità locale, sono abili manovratori di situazioni e carrieristi di professione.
Tutto ciò che fanno è pro domo loro, cercano di non sbagliare una mossa o quantomeno di non compierne di azzardate e perciò preferiscono al limite ripescare vecchi e inossidabili maestri. Mentre occupano importanti posizioni nei musei internazionali, l' arte dei loro coetanei langue in una mediocrità assoluta.
Non gliene importa nulla di valorizzare il patrimonio della loro generazione perché ciò non fa cassa e non restituisce abbastanza prestigio.
Così i giovani artisti italiani, abbandonati a se stessi, il più delle volte agiscono da indipendenti, superano la figura del critico fedele e complice e si organizzano mostre ed eventi per i fatti loro.
Ma questo è segno di grande debolezza, perché alla fine i critici somigliano a grigi burocrati, quando invece l' arte si è sempre fatta negli studi, nelle accademie, in luoghi disagiati e non troppo fighetti. Insomma se qualcuno dei nostri brillanti curatori di successo volesse spiegarci quale ricetta esiste per l' astenia e il malessere dell' arte italiana, gliene saremmo davvero grati.
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