Estratto dell’articolo di Chiara Brusini per ilfattoquotidiano.it
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“Aver alzato la soglia degli appalti a 500.000 euro per le stazioni appaltanti non qualificate è come permettere di guidare in città senza patente dove c’è il limite dei 50 km”. Parola del presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che durante il convegno ‘Cantiere Italia. Tra Pnrr, emergenze e nuovo codice appalti’ nella sede dell’Ance ha nuovamente sparato alzo zero su alcuni punti del nuovo Codice appalti scritto dal Consiglio di Stato e approvato in consiglio dei ministri a dicembre, ora in Parlamento per i pareri delle commissioni.
Nel mirino sia la decisione di “permettere di fare appalti fino a mezzo milione per chi non è capace di farlo, perché non qualificato”, con la certezza – più che rischio – che così “i lavori e gli acquisti si fanno male, si spende molto di più del necessario e si buttano soldi pubblici“, sia l’eliminazione dell’elenco gestito da Anac delle società in house a cui le amministrazioni danno affidamenti diretti e l’ammorbidimento delle norme sul conflitto di interessi.
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La riforma delle norme sui contratti pubblici è uno degli obiettivi cruciali del Recovery plan, “ma non basta farla”
Per prima cosa, secondo Busia, aver assecondato i Comuni che come sempre hanno chiesto deroghe all’obbligo di qualificazione (peraltro ancora lettera morta) per continuare a gestire gli affidamenti – e hanno ottenuto di poterlo fare per lavori fino a 500mila euro – è stato un grave errore: “Occorre riportare la soglia a 150.000 euro. Sopra quella soglia per fare appalti bisogna essere qualificati. Oggi in Italia non possiamo permetterci un numero spropositato di stazioni appaltanti, oltre 36.000. Devono scendere a un terzo delle attuali. Le centrali di committenza qualificate non possono essere più di 100. Altrimenti le pubbliche amministrazioni soccombono nella contrattazione con i grandi gruppi privati“. Una prospettiva da brividi, nell’anno in cui dovrebbe iniziare la concreta messa a terra dei fondi del Recovery. E colpisce che la condividano anche i costruttori, visto che per Federica Brancaccio, presidente dell’Ance, con questa norma “si rischia di sottrarre al mercato una grande fetta” di lavori.
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Altri rischi sono legati all’aggiudicazione dei contratti pubblici sotto soglia, per i quali sono consentiti gli affidamenti diretti o con procedura negoziata: “Anac è per semplificare e affidare in maniera veloce. Ma attenzione: ragioniamo sul sotto soglia. Non può essere che assistiamo a continue forniture di servizi da parte dei Comuni tutte a 140.000 euro, per stare sotto la soglia e affidare contratti direttamente. Così si privilegiano i soliti noti, i più vicini all’assessore o al sindaco, non le imprese migliori, quelle con i prezzi più bassi, quelle che lavorano meglio. Grazie alla digitalizzazione è possibile fare in fetta, ma anche bene. Senza ricorrere sempre agli affidamenti sotto soglia in maniera discrezionale“.
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“Sbagliata”, poi, la soppressione dell’elenco dell’in-house gestito da Anac: “È stato abolito il registro che verifica quali in-house hanno le caratteristiche per operare correttamente. Due terzi dei richiedenti non hanno quelle caratteristiche, e finora sono rimasti esclusi dall’elenco. Ora entreranno tutti. Ha senso questo? Favorisce una migliore gestione e fornitura di servizi? Aiuta a fornire servizi a prezzi più competitivi? Favorisce la libera concorrenza e la scelta dei fornitori migliori? Io credo di no.
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Infine, “Anac chiede il ripristino della normativa del conflitto di interessi nel nuovo codice appalti. Il settore dei contratti pubblici è delicato. Anche se non c’è la bustarella o la corruzione danneggia l’interesse pubblico scegliere l’impresa amica, quella più vicina e non la migliore. Non è interesse soltanto di chi ha perso la gara, evitare il conflitto d’interesse. È interesse collettivo di tutti, per il bene comune e la scelta migliore delle imprese nell’affidare appalti e servizi”.
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