Estratto dell’articolo di Mauro Favale per “la Repubblica”
carlo rivolta
C’è la politica, c’è il giornalismo e c’è la lotta armata. Ci sono i giovani, la musica, le piazze piene di gente e l’eroina che inizia lentamente a svuotarle. C’è, soprattutto, «la speranza di far capire la vita degli altri, di incidere nella storia», un grande amore per il mestiere di cronista che non lo abbandonerà mai e che lo renderà un testimone, un simbolo, una sorta di eroe tragico della sua generazione.
Tutto questo era Carlo Rivolta, classe 1949, morto a soli 32 anni, talento giornalistico sopraffino, firma di punta della prima Repubblica, la nave corsara fondata da Eugenio Scalfari nel 1976 che superò i marosi degli anni Settanta anche grazie alle sue cronache del Movimento del ’77 e non solo. Dopo un libro, adesso si occupa della sua figura unica anche un bel documentario, La generazione perduta, diretto da Marco Turco che lo ha scritto insieme a Wu Ming 2 e che domani verrà proiettato al Nuovo Sacher di Roma dopo l’anteprima fuori concorso al Torino Film Festival e la vittoria del Nastro d’Argento per il miglior documentario 2023.
la generazione perduta docufilm su carlo rivolta locandina
[…] La generazione perduta ricostruisce quella cruciale stagione di passaggio attraverso la lente di un testimone di eccezione, Rivolta appunto, che narrò per primo e meglio degli altri gli anni di una rivoluzione interrotta che era anche la sua, a tal punto da farsi protagonista delle sue stesse cronache.
Succede quando, nelle pause tra il resoconto di un corteo o di un attentato, racconta dalle colonne di Repubblica i concerti rock o le vacanze dei ragazzi degli anni Settanta, succede soprattutto quando parla di droghe, della repressione che «si abbatte sul mondo giovanile», dice lui stesso in uno spezzone del programma tv Trentaminuti giovani recuperato nell’immenso archivio delle Teche Rai.
Alle vicissitudini dei consumatori di eroina, «abbandonati a un mercato nero omicida, alle inesistenti strutture sanitarie, a leggi inique, ai miti di un’informazione vergognosa e foriera di pericolosi pregiudizi, a una politica distante, insensibile, incapace di aprirsi ai problemi dei più giovani» (recita la voce narrante di Claudio Santamaria) Rivolta dedica buona parte della sua breve vita professionale.
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La conoscenza di quel mondo — non solo il movimento del ’77 in cui aveva militato ma anche l’eroina di cui faceva uso prima saltuario, poi sistematico — si tramutò in lavoro giornalistico. Attraverso filmati e testimonianze dell’epoca, La generazione perduta — prodotto da Mir Cinematografica e Luce Cinecittà in collaborazione con Rai Cinema e Aamod — riapre uno squarcio sulla diffusione e su cosa rappresentò in quella determinata fase storica la brown sugar.
In un racconto senza giudizi della giornata di un tossicodipendente, del suo «sbattersi» per trovare una dose, Rivolta illumina zone d’ombra per spiegare come funziona la vendita al dettaglio e, allo stesso tempo, chi controlla il mercato, avanzando ipotesi su una banda che voleva “prendersi Roma” che troveranno conferme solo molti anni dopo.
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Lo slancio e la passione per la cronaca, però, si infrangono di fronte alle delusioni, anche personali, di un momento storico angoscioso che, alla fine, porterà Rivolta ad abbandonare Repubblica per approdare, gli ultimi mesi della sua vita, a Lotta Continua. […]
Ma è sull’eroina che si concentra il documentario. «Non so in che modo fermare la valanga», annota Rivolta in una pagina del suo diario in cui descrive con lucidità i suoi momenti di “rota”, quando si rifugia a letto «pieno di roba fino agli occhi». «Dovrei diventare uno regolare ma non ce la faccio, è una situazione insostenibile che mi lacera», scandisce la voce di Santamaria-Rivolta.
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Da lì è tutto un precipitare verso una fine che mischia l’incidente a una deriva autolesionista ormai difficile da limitare. Tra le righe dei suoi diari resta una fiammella di speranza, aspettando che «il destino mi desse un’altra possibilità», magari per cambiare mestiere e diventare, come racconta al suo amico Giovanni Forti (altro giornalista di razza che anni dopo raccontò il calvario della sua sieropositività sulle pagine dell’Espresso), «un cantante rock». […]
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