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    RIVERA IERI, OGGI, DOMANI E SEMPRE - ''IL CALCIO? E’ SOLO UN RICORDO. NELLA MIA VITA CANCELLEREI IL TITOLO PERSO A VERONA COL MILAN, IL KO CON LA COREA NEL ’66 E LA DC CHE CAMBIA NOME PUR DI NON APPRODARE NEL PATTO SEGNI DOVE INVECE ANDAI IO”


     
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    1. L’INFANZIA AD ALESSANDRIA, I TRIONFI ROSSONERI A MILANO; POI BRERA, ROCCO, MAZZOLA E LA PRIMA MACCHINA: ERA UNA FIAT 1300 GRIGIA

    Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera”
     

    «Signor Giovanni Rivera, non ho difficoltà a dichiararLe che, qualora allo scadere della stagione calcistica 1962/63, Ella abbia dimostrato un ulteriore sviluppo agonistico, tale da averLe consentito un rendimento superiore a quello dell’annata 1961/62, la presidenza del Milan provvederà, insindacabilmente, ad un’equa maggiorazione del premio di riconferma riconosciutoLe per la stagione 62/63». 
     

    Nulla dimostra quanto sia cambiato il calcio quanto questa lettera di Andrea Rizzoli del 10 settembre 1962, con quelle maiuscole di cortesia manco fosse mandata a un ambasciatore e non a un ragazzetto di 19 anni. Macché procuratori, trattative estenuanti, offerte di disturbo di altri club, contratti da milioni di euro!

     

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    L’allora presidente del Milan concludeva anzi: «Aggiungo che sue eventuali richieste di anticipazioni sulle rate del premio di riconferma saranno dalla presidenza stessa esaminate con benevolenza, ben s’intende nel limite del possibile». Insomma, che il «Golden Boy» non si sognasse di avere grilli per la testa solo perché era considerato l’astro nascente del calcio italiano, europeo, mondiale. 
     

    La chicca è nel libro Gianni Rivera. Ieri oggi , che è edito da Marconi Productions, esce l’11 dicembre e sarà in vendita solo sul sito dell’ex calciatore, ex deputato, ex sottosegretario eccetera.

     

    Un libro di ricordi personali dovuti anche al papà Teresio (un operaio delle ferrovie che cominciò a mettere da parte i ritagli dei giornali di Alessandria quando ancora il pulcino doveva farsi galletto) e della moglie Laura, che ha selezionato centinaia di articoli, curiosità, foto.

     

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    Ma insieme, essendo il nostro nato poco prima dell’8 settembre, un modo per rileggere il dopoguerra di tutti. A partire dalla decisione dell’anagrafe che il neonato non poteva assolutamente chiamarsi Gianni «perché non c’è nessun santo con quel nome». Giovanni, semmai… E Giovanni fu. 
     

    Nonni contadini da una parte, tavernieri con locanda dall’altra. E lì infatti, sanando il dolore del padre e della mamma Edera, che avevano perso la prima bambina, nacque. Nella locanda. Per crescere poi in una «vecchia casa con un cortile e gli appartamenti (si fa per dire) tutti fianco a fianco su un “ballatoio” col gabinetto in comune. Ognuno aveva due stanze: cucina-sala, con lavabo e stufa a carbone e la camera da letto.

     

    Finché eravamo piccoli Mauro e io dormivamo nella stessa stanza dei miei genitori. Dopo il mio esordio in prima squadra, a 16 anni, mi fu riservato il divano della sala». Nel cortile, «c’era un garage per l’unica auto: la giardinetta di Verzetti, il padrone di casa». Il quartiere era in quello che oggi è il centro di Alessandria. Nel «canton di russ». Dove stavano i comunisti. Lui preferiva i preti: Don Filippini, Don Ceschia e Don Piero… 
     

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    Per un sacco di tempo, racconta, fu ovunque andasse «il più giovane di tutti». A partire, ovvio, dall’oratorio Don Bosco: «Quando giunsi la prima volta ero molto piccolo e vidi che il grande cortile di terra battuta era diviso da una serie di alberi: da una parte giocavano i “grandi”, dall’altra i “piccoli”. Io, naturalmente, fui spedito nel secondo reparto. La cosa durò forse un paio di giorni». Poi non solo passò tra i grandi ma, come raccontano i vecchi amici, diventò oggetto quotidiano di calciomercato.

     

    Quando arrivava a partita già iniziata, infatti, «appena chiedeva ”Con chi sto?”, il gioco si bloccava e avevano inizio le trattative per stabilire quanti giocatori dovevano essere trasferiti nell’altra squadra. Normalmente la sua valutazione era di due, tre o quattro elementi a seconda del valore…».

     

    Fece il provino all’Alessandria il giorno del patrono di Valle San Bartolomeo, paese dei nonni. Aveva il vestito della festa, con le scarpette lucide: l’allenatore «mi lanciò un pallone perché glielo restituissi una volta col destro, e poi con il sinistro, uno stop con i due piedi, uno con le due cosce, un colpo di testa. Poi mi salutò». Tre anni dopo esordiva in serie A. 
     

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    Unici lussi, certe domeniche al mare in Liguria, in treno e coi panini, grazie ai biglietti chilometrici di papà Teresio: «Guadagnava 45mila lire al mese. Un po’ mi vergognavo di prenderne, già coi primi premi partita, ottantamila». Cifre immensamente lontane, comunque, da quelle di oggi.

     

    E così sarebbe stato anche in seguito. Basti dire che la famiglia traslocò a Milano, dopo la cessione al Milan, in treno: «Non è che avessimo molta roba da portare». Destinazione, un appartamentino ancora di due stanze: «Stavolta, però, c’era anche il cucinino e un bagno tutto nostro». Il salto alla casa più grande sarebbe arrivato con la Coppa dei campioni. 
     

    Indimenticabile il ricordo di Nereo Rocco. Un aneddoto fra i tanti, una finale di coppa: «Eravamo tesissimi. Allora non c’erano gli schemi di oggi ma un minimo di tattica… Lui, tranquillo. A un certo punto i vecchi della squadra gli si fecero intorno: “Paròn, come giochiamo?”. Lui, psicologo straordinario, radunò tutti e si rivolse a Cudicini, il portiere: “Allora, lo schema xè questo: ti, Fabio, te va in porta e tuti i altri fora”. Ci mettemmo tutti a ridere. Scendemmo in campo e vincemmo». 
     

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    Non mancano i ricordi di momenti brutti, del braccio di ferro col presidente Albino Buticchi, dei rapporti con Gianni Brera o Sandro Mazzola («in realtà erano buoni, con Brera, facemmo anche un vino insieme»), dell’amicizia con padre Eligio mai rinnegata nonostante qualche polemica velenosetta.

     

    Mancano, peccato, altri dettagli che chiariscono il personaggio. Come il primo sfizio. L’acquisto di una macchina. Una Porsche, una Lamborghini o una Ferrari? Macché: una Fiat 1300. Grigia. Che non desse troppo nell’occhio… 

     

     

    2. LA MIA VITA NELLE SCATOLE DI PAPA’: ESSERE BRAVO MI HA RESO PIU’ LIBERO

    Paolo Brusorio per “la Stampa”

     

    Gianni Rivera, un' autobiografia a 72 anni. Come mai?
    «È una vita che ci provano in tanti a convincermi, io ero fermo ai libri con Oreste del Buono, fine Anni Sessanta. Da allora ho continuato a prendere nota, a mettere via appunti in attesa di capire che cosa farne. Alla fine il libro me lo sono fatto da solo».
     

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    Proprio tutto da solo?

    «Devo ringraziare mia moglie che ha messo ordine alle cose e poi mio padre. Raccoglieva tutto quello che mi riguardava, articoli di giornale, foto, ogni dettaglio.
    Un' abitudine cominciata fin da quando stavo nelle giovanili dell' Alessandria».

    E dove custodiva tutto?
    «Nelle scatole delle camicie. Una per ogni anno e così per 20 anni».

    Che effetto le ha fatto pescare nei ricordi?
    «In quelle scatole non c' era solo la mia vita, ma un' epoca. Il dopoguerra. Da bambino vivevo come tutti gli altri bambini, come i miei coetanei dell' oratorio. Con alcuni di loro sono ancora in contatto».
     

    Scelga un' immagine di Rivera non ancora Giannirivera.
    «Io nella cucina di casa ad Alessandria. Avevamo una stanza dove si dormiva tutti, i miei genitori mio fratello ed io, e la cucina. Stop. Il bagno in comune sul ballatoio. Era la vita di città, papà e mamma erano di Valle San Bartolomeo, solo dopo si trasferirono ad Alessandria».
     

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    Nel libro ci sono i suoi scritti e quelli di chi l' ha amata, giudicata, apprezzata e criticata. Le danno ancora fastidio certi pareri?
    «No, ma se è per questo nemmeno allora. La cosa che mi mandava in bestia erano gli attacchi alla mia vita privata».
     

    Quindi anche Brera...

    «È stato il più critico, ma a fine carriera sapesse quante volte siamo andati a cena insieme. Con lui per discutere si finiva sempre intorno a un tavolo».

    Un campione sul piano caratteriale deve essere anche guida per gli altri compagni: lo scrive lei. Ma Rivera quando ha capito di essere diventato campione?
    «Abbastanza presto. A 17 anni ero titolare al Milan e anche i più anziani mi hanno accolto subito molto bene. Io ho sempre avuto un grande rispetto per le gerarchie, l' ho imparato facendo il servizio militare, ma vedendo loro che mi trattavano alla pari capii che ero sulla strada giusta».
     

    E sul campo?

    «Dopo i Mondiali del '66 finiti con la Corea, contro cui peraltro feci una delle mie migliori partite, il Milan mi fece capitano. Fu la svolta».
     

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    Chi oggi è campione e anche guida?

    «Bisognerebbe essere dentro uno spogliatoio per saperlo. Da fuori, penso a Totti o a De Rossi. Anche a Higuain: non ne conosco il carattere, ma è così bravo da riuscire a trascinare i compagni».

    Scrive ancora: ero un giocatore scomodo. Perché?
    «Dicevo le cose che non andavano, quelle che magari sarebbe stato meglio le avessero dette i dirigenti.

     

    Ma ogni argomento era discusso nello spogliatoio, i compagni mandavano avanti me perché ero l' uomo bandiera e perché ero bravo sul campo: così potevo dire quel che pensavo. Poi ne pagavo le conseguenze. È sempre andata così nella mia vita, per questo forse gli scalini della salita si sono fermati, ma ormai è acqua passata».
     

    Quindi si può contestare solo se si è bravi?

    «Aiuta».
     

    Un titolo della Gazzetta: Rivera, un vecchio di 17 anni. Ora chi è, un giovane di 72?

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    «Fu Gipo Viani a definirmi così, aveva ragione. Più che invecchiare nella vita non si può, così mi ero portato avanti. Come mi sento? Lo spirito è sempre lo stesso, il fisico mi aiuta: certo non posso più giocare come una volta».
     

    Che cos' è il calcio per lei oggi?

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    «Un ricordo. Anche se da qualche giornata sono tornato ad appassionarmi, vedo squadre che provano ad attaccare. Mai pensato di passare la palla indietro, per me era inconcepibile».

    Chi o che cosa la diverte?
    «Il Barcellona, ma è un mondo a parte, sembra il Brasile di Pelé e non solo quello del '70. Hanno stabilito che si gioca così al calcio, punto e basta. In Italia? Le squadre che attaccano».

    Oggi Rivera giocherebbe all' estero?
    «No, io amo il mio Paese. Non mi sarei mosso dall' Italia».

    Anche se negli stadi spesso c' è un clima insostenibile, insulti e cori razzisti?
    «Io non credo che quello sia razzismo. Nel calcio si è sempre messo in difficoltà l' avversario, non spacciamo per razzismo la cultura del tifoso che vuole sempre vincere...».

    Cultura del tifoso? Non è un' analisi un po' riduttiva?
    «Il razzismo esiste, ma sta nella società. E anche tra i bianchi, tra chi è ricco e chi è meno ricco. Quello negli stadi non è razzismo».

    Qual è un club modello oggi?
    «La Juventus. Lo stadio di proprietà le ha fatto fare un notevole passo in avanti, hanno un bel modo di condurre una società».

    Thohir all' Inter, e forse Mr Bee al Milan: che fine ha fatto la sua Milano?
    «Sta al passo con i tempi. Più ci si apre al mondo, meno il mondo ci farà paura. E poi contano le maglie di Inter e Milan, i presidenti sono importanti solo se fanno vincere».

    Rimettendo insieme il puzzle della sua vita che cosa cancellerebbe?
    «Facile. La sconfitta di Verona nel 1973 che ci costò lo scudetto. Venivamo dalla finale vinta di Coppa delle Coppe a Salonicco, oggi ci darebbero un giorno in più di riposo. E con un giorno in più avremmo vinto. E la sconfitta nel '66 con la Corea».
     

    E in politica?

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    «La Dc che cambia nome pur di non approdare nel Patto Segni dove invece andai io. Quella è la mia fatal Verona politica».

    Ora che Pirlo è a fine carriera, quanto ci vorrà per vedere un altro erede di Rivera (e di Pirlo)?
    «Almeno dieci anni. Il periodo dopo il quale si può dire di aver lasciato il segno».

    Tra le persone che non ci sono più chi vorrebbe che leggesse il suo libro?
    «Mio padre e mia madre. Per tutto quello che mi hanno insegnato. Non si sono mai vantati di essere i genitori di Rivera».

    E Rocco che cosa direbbe del libro?
    «Gianni, te ga fato el mona. Poi però lo apprezzerebbe».

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