
DAGOREPORT - L’ENNESIMA PROVA CHE LA TECNOLOGIA SIA OGGI UN‘ARMA ASSOLUTA SI CHIAMA ‘’RAFAEL…
DAGOGAMES BY FEDERICO ERCOLE – “GHOST OF YOTEI” È UN GRANDE “OPEN WORLD” D’AMBIENTAZIONE NIPPONICA PIENO DI MAGNIFICENZA SCENOGRAFICA, PATHOS, POSSIBILITÀ LUDICHE, COERENZA STORICA, CARISMA E ARTE - LA PROTAGONISTA ATSU E' INDIMENTICABILE E ADORABILE NELLA SUA SOFFERTA VIOLENZA, NELLA SUA QUIETA, FERITA E SOLITARIA BELTÀ - UNA STORIA PROFONDA DI DELITTI E CASTIGHI NEL GIAPPONE DEL 1600 CHE È CONTENITORE DI TANTI RACCONTI E VISIONI STRAORDINARIE RACCOLTE IN UN VASTISSIMO MONDO APERTO CHE NON CESSA MAI DI MERAVIGLIARE… - VIDEO
Federico Ercole per Dagospia
“La risposta soffia nel vento”. Così canta Bob Dylan e sebbene il testo di questa canzone nulla abbia a vedere con l’epopea vendicativa di Atsu in Ghost of Yotei, ogni risposta della nuova esclusiva per PlayStation 5 di Sucker Punch risiede davvero nel vento.
Come già in Ghost of Tsushima, di cui Yotei non è seguito perché racconta tutt’altra storia in un altro tempo del passato giapponese, è sufficiente strisciare un dito sulla superficie del controller DualSense per smuovere l’aria attorno alla protagonista che comincia a soffiare in una brezza verso l’obiettivo prescelto, sempre fonte di scoperta, misteri, impreviste avventure.
Questa opzione è fin troppo poco lodata nel suo essere motore di immagini purissime, eliminando dallo schermo inutili e artificiosi segnali, animando i panorami di nuova e naturale bellezza, valorizzando l’importanza dello sguardo sull’ambiente, diminuendo in maniera estrema la consultazione della mappa e quindi aumentando l’illusione di essere altrove in spazi magnifici. Ecco, ancora più di Tsushima, Ghost of Yotei è un impressionante generatore di visioni, di un “cinema possibile” nelle mani di chi gioca.
Ma non solo: Ghost of Yotei è un grande “open world” d’ambientazione nipponica, anzi un grande “open world” in generale e se comparato al comunque più che interessante Assassin’s Creed Shadows quest’ultimo risulta sconfitto, perché il primo possiede assai più magnificenza scenografica, pathos, possibilità ludiche, coerenza storica, carisma e arte in generale, oltre che una protagonista indimenticabile e adorabile nella sua sofferta violenza, nella sua quieta, ferita e solitaria beltà: Atsu.
LA STORIA DI ATSU
Siamo nei pressi del monte Yotei, nella regione di Ezo, oggi conosciuta come Hokkaido. Anno 1600, quindi trecento anni dopo le vicende narrate in Ghost of Tsushima. Conosciamo Atsu ancora ragazzina, piangente e disperata, i suoi genitori massacrati, lo sguardo furioso e impotente verso gli assassini.
Ha la Katana che fu di suo padre piantata tra il braccio e la spalla, “crocifissa” ad un albero di gimko che sta bruciando. I suoi nemici la lasciano lì a morire. Ma ella sopravvive, diventa una mercenaria, affina le sue doti di guerriera e infine torna per vendicarsi dei sei che hanno ucciso la sua famiglia, armata di
quella stessa Katana che quasi la uccise e con il suo inseparabile Shamisen, strumento a corde che la madre le insegnò a suonare perché, ella disse, “la musica permette di parlare con coloro che non ci sono più”. La prima sequenza di vendetta che segue il prologo è travolgente, c’è tutta la forza del cinema western di John Ford che Akira Kurosawa reinterpretò con amore nel suo cinema dei samurai.
E con la prima uccisione nasce la leggenda di Atsu, il popolo e i suoi nemici la considereranno una Onryo, demone della vendetta, assassina ritenuta soprannaturale in un gioco che comunque non è manicheo e offre interpretazioni sociali, storiche e politiche dei “cattivi”, umanizzandoli. Comincia cosi un’avventura aperta dalle innumerevoli possibilità ludiche e narrative, piena di digressioni che divengono novelle a se stanti quasi a comporre una raccolta di racconti più che un unico romanzo. E queste storie secondarie sono coinvolgenti, qualcuna straordinaria, materia per un singolo gioco.
Viaggiando a cavallo o a piedi e cercando risposte nel vento si giocano cose opzionali già viste in Tsushima, il “mini gioco” del bambù da tagliare con la lama, l’inseguimento delle volpi, i bagni meditativi nelle terme durante i quali vediamo Atsu nuda in immagini che non generano un erotismo da voyeur ma una poetica del corpo. Spero non le censureranno. Oltre a questo ci sono le tane di lupo per amplificare il rapporto con una bestia che, imprevedibile come la natura, talvolta interviene in aiuto di Atsu.
O la contemplazione dei panorami per poi dipingerli. Queste sono le attività ricorrenti, che non risultano tuttavia ripetitive perché ognuna di esse possiede una sua originalità, così come i memorabili duelli contro i Ronin che vagano per le terre di Yotei, ognuno con una sua storia e una sua unicità. E in Yotei, oltre a questa lirica ambientale e musicale, perché la colonna sonora è “giusta” e ispirata; oltre a questa narrazione così avvincente, si combatte molto bene. Perché ovviamente tra tanti aspetti poetici, ci sono anche tanti nemici. Altrimenti a che serve una Katana.
NON SOLO KATANA
Atsu nel suo viaggio non userà solo la spada del padre, ma imparerà a padroneggiare tramite l’insegnamento di maestri esemplari anche la doppia Katana, l’Odachi (lama lunghissima) e altro, oltre gli archi e altre armi da lancio. I combattimenti risultano fluidi e credibili, impegnativi e tecnici in base alla difficoltà scelta. Si può passare in tempo reale da un’arma all’altra, perché se un nemico usa una lancia è meglio utilizzare una doppia Katana e l’Odachi funziona contro gli energumeni. C’è sempre un’epica del duello, in ogni scontro, mai automatismo, o noia.
Nel suo lungo e interpretabile svolgimento, Ghost of Yotei si rivela un “open world” degno di stare accanto ai migliori, superiore addirittura al già notevole Ghost of Tsushima. Spero sia amato e abbia il successo che merita, perché anche Tsushima fu incompreso da tanta critica e considerato convenzionale, e Yotei è un gioco ancora più raffinato e sottile, possibile vittima di sguardi e mani superficiali.
C’è la possibilità di giocarlo in “modalità Kurosawa” ovvero in bianco e nero (come se il regista non avesse fatto anche straordinari film sui samurai a colori, come Ran o Kagemusha), ma la sconsiglio perché i colori di Yotei sono davvero ammirabili. Provate invece la “modalità Takashi Miike” e il gioco risulterà più sanguigno e fangoso, alimentando ancora l’idea dell’ira funesta e al contempo alla dolente rassegnazione di Atsu.
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