Marco Pastonesi per Il Venerdì di Repubblica
ALL BLACKS
D a più di otto anni - luglio 2008 - regnano al primo posto delle graduatorie mondiali (e dal 2003, cioè da quando esiste questa speciale classifica computerizzata, sono stati i numeri 1 per l' 80 per cento del tempo). Con 97 su 100 hanno toccato il massimo della valutazione finora mai raggiunta in base ad avversari e punteggi. Vantano la più alta percentuale di vittorie nella storia, che adesso sfiora l' 80 per cento.
Con gli ultimi 18 successi hanno stabilito il nuovo primato (il precedente apparteneva sempre a loro, tra 2013 e 2014) per il maggiore numero di vittorie consecutive nei test-match internazionali (e le vittorie consecutive in casa hanno una striscia aperta di 45).
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Nel recente scontro diretto con gli storici rivali degli Springboks sudafricani hanno abbattuto tutti i record: 57-15, nove mete a zero, la vittoria con più punti e con più scarto, conquistata addirittura fuori casa. Hanno guadagnato le ultime due Coppa del mondo, quelle del 2011 e del 2015.
E sabato 12 novembre, all' Olimpico di Roma, affronteranno per la tredicesima volta (finora 12 vittorie, 686 punti fatti, 118 subiti) l' Italia. Diciamoci la verità: per loro sarà soltanto una formalità, quasi un' amichevole, un mezzo allenamento. E regaleranno un imperdibile spettacolo.
All Blacks, i Tutti Neri, dal colore della maglia con cui rappresentano la Nuova Zelanda: la squadra che tutti vorrebbero vedere e nessuno incontrare, la nazionale per cui ogni appassionato - a prescindere - fa il tifo, il marchio sportivo più celebre del pianeta Terra (più di Real Madrid e Barcellona nel calcio, più dei Lakers e dei Knicks nel basket). «Sono l' Everest del mondo ovale» dice Michael Cheika, allenatore dei Wallabies australiani.
«Giocano a un' altra velocità e a un' altra potenza» spiega Scott Quinnell, antica stella del Galles e opinionista tv. «È un sistema che sta funzionando alla perfezione, dalla base al vertice, dai giocatori agli allenatori, dal marketing al merchandising» sostiene Vittorio Munari, volto e voce del rugby in tv su Dmax.
«La migliore squadra di rugby dal 1995, cioè da quando esiste il professionismo» giura Ian McGeechan, scozzese, storico allenatore dei Lions, la formazione che seleziona il meglio di Galles, Inghilterra, Irlanda e Scozia. Lo scorso luglio lo storico Luciano Ravagnani e il tecnico Vittorio Pepe hanno scritto un libriccino in cui fanno la Tac al sistema neozelandese: titolo Ero lì, sottotitolo Si possono battere gli All Blacks? (Fondamenta, pp. 98, euro 12), risposta «gli All Blacks sono il rugby».
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I neozelandesi sono 4,7 milioni (in compenso le pecore sono quasi 30 milioni, con un rapporto, anche qui da primato del mondo, di 1 a 6) in un territorio grande poco meno dell' Italia. Ma si dice che tutti loro, donne comprese, giochino o abbiano giocato a rugby: a scuola o in un club, almeno in un pub, perché il rugby è lo sport popolare, la bandiera nazionale, lo spirito patriottico, il primo degli argomenti di conversazione, ma anche una religione, una filosofia, un modello educativo.
«Giocare negli All Blacks è il sogno di tutti i bambini neozelandesi» è il pensiero di John Kirwan, fuoriclasse fra i Tutti Neri, già allenatore dell' Italia, oggi commentatore tv. «Pensavo che diventare un All Black fosse la cosa più difficile, e invece mi sbagliavo, perché la cosa più difficile è confermarsi un All Black» è la confidenza di Tana Umaga, carismatico maori, soprattutto quando conduceva la haka, la danza di guerra rappresentata prima del calcio d' inizio.
«Diventare un All Black, confermarsi un All Black, ma non solo: crescere e migliorarsi fino a essere un grande All Black. Questo mi aveva insegnato mio zio, e questo mi sono sempre ripromesso di fare» è il credo di Richie McCaw, che fermo a quota 148 (si è ritirato un anno fa, da capitano della squadra, anzi, della "tribù" campione del mondo) è il neozelandese con il maggiore numero di presenze.
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Giocare negli All Blacks significa fare parte di una casta. Quella dei migliori. «I migliori sul campo, individualmente e collettivamente, di fisico e di testa, e i migliori anche fuori dal campo, nella vita di tutti i giorni» è sempre stato il comandamento dei rugbisti neozelandesi, a cominciare da Dave Gallaher, il capitano degli Originals (nel tour europeo del 1905 vinsero 32 incontri su 33), morto durante la Prima guerra mondiale in Belgio, passando per Colin Meads, il più forte giocatore di tutti i tempi
(nel 1970 si spezzò un braccio contro i sudafricani dell' Eastern Transvaal, ma rimase in campo fino alla fine), che si dice che si allenasse correndo con una pecora sotto il braccio destro e un' altra sotto il braccio sinistro, e finendo con Jonah Lomu, il massimo della potenza applicato alla velocità (morto il 18 novembre 2015, a 40 anni, per una malattia renale), che raccontava come il rugby lo avesse salvato dalla strada, dalle bande, dalle droghe.
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«I 15 in campo - spiega Munari - sono solo le punte di diamante di un movimento, anzi, di una scuola». Esistono regole, norme, princìpi che gli All Blacks devono rispettare, osservare, tramandare. In quale altra squadra si può trovare un capitano che, lasciato fuori per infortunio o riposo, va comunque in campo e, nelle interruzioni di gioco, assiste i compagni portando le borracce di acqua e indossando un "fratino" con la scritta "water"?
In quale altra squadra si possono trovare giocatori che, a turno, si occupano di pulire gli spogliatoi dalla terra o dai rifiuti dopo gli allenamenti? In quale altra squadra si può contare su giocatori che, durante le settimane internazionali, fra un allenamento e l' altro, frequentano ospedali e scuole? C' è chi ricorda sempre la visita che il 1° dicembre 2009 cinque All Blacks - con la collaborazione dell' As Rugby Milano, che lì insegna rugby rieducativo - fecero ai ragazzi dell' Istituto penale minorile Cesare Beccaria di Milano, giocando nel campetto circondato dalle mura e poi partecipando al terzo tempo con patatine e analcolici.
VITTORIO MUNARI
E non è tutto. Essere All Black significa condurre una vita esemplare con famiglia e donne, con quantità morigerate di alcol e nulle di droghe. E lo scandalo di Aaron Smith, il mediano di mischia mondiale nel 2015, reo confesso di sesso con una fan nel bagno riservato ai disabili di un aeroporto, è solo la conferma di uno stile irrinunciabile. Tant' è che Smith, sospeso dagli All Blacks per una giornata, si è poi autoinflitto un' altra partita fuori squadra, come se la punizione ricevuta non fosse stata abbastanza pesante.
«Ormai il codice di comportamento e le relative punizioni» dice Munari «non vengono dettati dalla dirigenza della Federazione rugby neozelandese, ma dagli stessi giocatori, consapevoli dell' importanza del loro ruolo e dei loro compiti, insomma, del loro esempio».
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Fra i giocatori, il capitano continua ad avere un' importanza superiore, fino a poter chiedere di coprire i loghi degli sponsor, indicare il leader della haka, sfilare sull' auto presidenziale. E tutti sanno di essere sempre sotto il tiro della critica sportiva e della stampa scandalistica.
Gli All Blacks - e non è un sacrilegio - sono i primi della classe, forse semidei. L' unico che osò beffarsi di loro fu il quotidiano londinese The Guardian: «Degli orsi duri, pelosi e muscolosi. E stiamo parlando solo delle mogli dei giocatori neozelandesi».