Andrea Catizone per leggo.it
BABY GANG
Sempre più spesso leggiamo sui titoli dei quotidiani che gruppi di giovani, identificati con il termine “Baby Gang”, mettono in atto comportamenti criminosi e devianti nei confronti delle persone o delle cose che incontrano soprattutto nei contesti urbani. Si tratta di un fenomeno diffuso da nord a sud del Paese e che preoccupa molto per la violenza attraverso la quale il gruppo colpisce indistintamente e spesso casualmente e per l’età di chi del branco fa parte.
C’è tuttavia un elemento di ambiguità nell’accostamento di questi due termini Baby e Gang già di per sé stridente, che genera una catena di ambiguità sulla quale vale la pena soffermarsi. Partendo dalla parola Baby, naturalmente presa in prestito dall’inglese, si può subito dire che essa ingenera istintivamente un sentimento di benevolenza e di giustificazione perché rimanda ad un universo emotivo fatto di azioni inconsapevoli e pertanto innocue.
BABY GANG
Baby, bambino nella nostra lingua, è un essere umano al quale in un certo senso siamo disposti a perdonare tutto quello che fa e ad essere quasi compiaciuti per le prodezze di cui si mostra capace. Risulta dunque inopportuno pensare che si possa trasferire nell’ambito dell’illecito e della criminalità chi per natura è collocato altrove; neppure l’accoppiamento con un termine così marcatamente criminale, come “gang” riesce a sporcare l’effetto di tenerezza che proviamo solo sentendo la parola bambino, baby.
BABY GANG
Dunque la prima accortezza di cui dovremmo essere capaci quando prendiamo espressioni straniere è di valutare l’impatto che il trasferimento nudo e crudo di modi di dire genera nella nostra cultura, nella nostra immaginazione, nella nostra sfera valutativa. La lingua è l’insieme di suoni che raccontano chi siamo e come viviamo, come singoli e come comunità e pertanto dovremmo essere meno approssimativi quando usiamo idiomi di altri mondi.
C’è un secondo ordine di ragioni che rafforza la convinzione di abbandonare questa espressione diseducativa, per piccoli e grandi, ed è legata all’età anagrafica dei giovani facenti parte della gang. Leggendo gli articoli che li menzionano si apprende che si tratta di ragazzi dai quattordici ai diciassette anni di età circa, i quali la fase dell’infanzia l’hanno ampiamente abbandonata e forse per loro sfortuna mai neppure vissuta.
andrea catizone
Allora perché ostinarsi a chiamarli bambini? Certo il nostro ordinamento giuridico ha giustamente previsto un sistema dedicato ai diritti dei minorenni e distinto da quello degli adulti, stabilendo tuttavia delle gradualità di responsabilità e di coinvolgimento diverso a seconda dell’età e dello sviluppo psicofisico. Definire bambini i ragazzi prossimi alla maggiore età ingenera confusione e non rappresenta correttamente il drammatico fenomeno di disagio che investe le giovani generazioni e per fortuna non interessa il mondo dell’infanzia.
Le parole sono importanti diceva qualcuno e se riguardano i minorenni ancora di più pertanto sarebbe più opportuno parlare di Teen-Gang.
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