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Ettore Livini per "la Repubblica"
L´Italia delle lungaggini burocratiche e dei veti politici colpisce ancora. La British Gas ha rinunciato alla costruzione del rigassificatore a Brindisi, un progetto su cui aveva già investito 250 milioni, destinato a regime a creare un migliaio di posti nell´area. La richiesta per avviare i lavori sull´impianto (a regime avrebbe dovuto garantire il 10% del gas necessario al nostro Paese) era stata presentata al governo italiano nel novembre 2001.
La pratica ha iniziato poi a rimbalzare come una pallina del flipper tra ministeri, commissioni e tribunali, insabbiata dalle decine di ricorsi degli enti locali, dalle richieste a volte un po´ astruse degli "organismi competenti" e dalle lungaggini della giustizia civile tricolore.
IL GEMELLO GALLESE
Dopo più di un decennio d´attesa, gli inglesi, esasperati, hanno alzato bandiera bianca. «A tutto c´è un limite», ha commentato secco Luca Manzella, ad di British Gas Italia. E così la multinazionale ha messo una pietra sui soldi spesi, ha avviato la procedura di mobilità per i venti dipendenti già assunti e ha dato l´addio al sogno pugliese.
Meglio trasferirsi altrove.
La società inglese, del resto, aveva chiesto nel 2001 di poter costruire in Galles un impianto identico a quello previsto nel nostro Paese, ubicato per di più in un´area ad alto interesse naturalistico. Morale: quel rigassificatore è stato approvato nel 2006 e oggi è già pienamente operativo... «Andrò a fondo per capire le ragioni dello stop italiano», ha promesso ieri il ministro allo Sviluppo Economico Corrado Passera a frittata fatta. I ritardi - ha spiegato il governatore della Puglia Nichi Vendola - sono dovuti «alla pretesa di British Gas di eludere le procedure di valutazione ambientale e di imporre un sito inidoneo».
L´HANDICAP TRICOLORE
Il caso del gruppo di Londra non è isolato. Il colosso del trasporto marittimo Maersk ha abbandonato qualche mese fa il porto di Gioia Tauro - dove garantiva il 25% del traffico - dirottando le sue navi (e i suoi soldi) su Malta e Spagna. Il motivo? Le croniche inefficienze e i ritardi nell´ammodernamento delle infrastrutture e dei collegamenti del porto tricolore.
L´Ikea - dopo sei anni di lungaggini burocratiche - aveva deciso di cancellare l´apertura di un nuovo centro in Toscana («in Cina per la stessa pratica ci vogliono solo otto mesi», aveva sottolineato presino il presidente della Ue Manuel Barroso). Poi l´intervento in zona Cesarini del Governatore della regione Enrico Rossi ha resuscitato il progetto che vale 70 milioni e 350 posti di lavoro.
POCHI SOLDI DALL´ESTERO
Non si tratta di casi isolati. Il Nimby Forum ha calcolato che - Tav a parte - sono ben 311 in Italia i progetti di impianti contestati nel nostro Paese. E a mettere i bastoni tra le ruote agli investimenti, più che i cittadini, sono i soggetti politici locali. Il risultato è il drammatico crollo degli investimenti esteri in Italia.
Nel 2011 sono calati del 53% (contro un -5% a livello europeo) mentre il valore totale degli impianti di aziende straniere nella penisola è di 337 miliardi, la metà (in confronto al pil) rispetto a quelli di Spagna e Germania. Un dato che accoppiato alla paralisi degli investimenti pubblici - nel 2012 saranno 35,2 miliardi, sette in meno dell´anno precedente - spiega da solo le performance asfittiche (a dir poco) del Pil tricolore. Nella classifica "Doing business" stilata ogni anno dalla Banca Mondiale - un indice che misura la facilità nell´avviare un´impresa - il nostro paese è sceso nel 2012 dall´83esimo all´87esimo, dietro l´Albania, lo Zambia e la Mongolia.
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