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Massimo Mucchetti per il Corriere della Sera
Il ministro del Welfare, Elsa Fornero, ha chiesto a Sergio Marchionne di esporle i piani Fiat e le loro ricadute sull'occupazione. Il top manager ha subito accettato. Ma di che cosa parleranno se Marchionne sostiene di non poter dire di più del poco che ha fin qui detto su Fabbrica Italia?
Alimentate dal gioco del dico e non dico, tornano d'attualità la sede centrale («Possiamo scegliere tra Torino e Auburn Hills»), la fusione Fiat-Chrysler («Non sarà per il 2012, ma avverrà tra il 2013 e il 2015») e le voci su una nuova alleanza, questa volta con il gruppo francese Psa, antico progetto mai davvero perseguito fin qui.
Elsa Fornero ha buone ragioni per preoccuparsi. E con lei il suo collega allo Sviluppo economico, Corrado Passera. La prima è lo stile di Marchionne. Dove trovare nel mondo un altro top manager che, parlando all'estero, racconta il Paese, dove ha sede la società che lo paga e che dal quel Paese ha avuto tanto, come un luogo dov'è impossibile investire?
In Italia è difficile lavorare. à vero. Ma in tanti ci riescono. Altrimenti l'Italia industriale non sarebbe quella che è. E questa è la stessa terra che fino al 2008 gli regalava il successo. La domanda italiana di automobili è in flessione, causa l'impoverimento del Paese. Ma le quote di mercato della Fiat calano, causa la vetustà dell'offerta.
In un logica di breve termine e di utilitarismo spinto, la Fiat ha deciso di tagliare gli investimenti in patria. Parlano i bilanci. E si è giocata in America le tecnologie Fiat, che qui non facevano più la differenza. L'apporto Chrysler in Italia non si è ancora visto. Questa è la sostanza. La Fiom è colore. Nascondere i fatti e dire che l'Italia è un Paese dove non si può investire è una bugia.
Lactalis Parmalat se l'è comprata, Safrane vuole Avio, General Electric fa faville con il Nuovo Pignone. Ma una bugia che sulla bocca di un Marchionne può essere creduta e danneggia tutti. Nessuno chiede silenzi complici. Solo equilibrio.
L'attrazione fatale di Detroit è fatale, ancorché a regime comporti la responsabilità italiana sul fondo pensioni locale. Il marchio Fiat perde terreno in Europa e anche in Brasile. Chrysler continua il recupero dopo il suo terzo disastro in vent'anni. Ma il punto ancor più delicato potrebbe essere Psa. Chi comanderebbe? Il valore della quota Agnelli in Fiat (1,3 miliardi) è superiore a quella dei Peugeot in Psa (900 milioni), ma i diritti di voto sono diversi: per i primi il 30% di Fiat, per i secondi il 46% di Psa. Ci saranno da sistemare i premi di maggioranza.
D'altra parte, se la Fiat vale quasi 5 miliardi e Psa soltanto 3, il patrimonio netto tangibile della prima è negativo per 6 miliardi e quello della Psa è positivo per 8. Psa vende 3,5 milioni di automobili, Fiat-Chrysler quasi 4. Un vero colosso. Ma con i piedi d'argilla. Il gruppo italoamericano ha 26 miliardi di debiti contro gli 11,5 del francese, e curiosamente continua a dichiarare un'immane liquidità , 18 miliardi contro i 9 dei francesi. La fusione con Psa comporterebbe la chiusura di molte fabbriche per tagliare i costi e rilanciare i profitti. Tra Francia e Italia dove avverrà il salasso maggiore?
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