IN MORTE (FINANZIARIA) DI LIGRESTI, IL CORRIERE SCOPRE UNA VERITA’ PATRIOTTICA CONTRO GERONZI, BERNHEIM E PROFUMO: MEDIOBANCA E GENERALI HANNO RISCHIATO DI DIVENTARE FRANCESI - UNO SPACCATO CHIRURGICO DELLE LOTTE AI VERTICI DELLA FINANZA ITALIANA CONSIGLIATO A TUTTI COLORO CHE ESERCITANO O BRAMANO IL POTERE - SERVIREBBE UNA SECONDA PUNTATA PER METTERE MEGLIO A FUOCO COME TUTTO CIÒ HA INFLUITO SU RCS-CORRIERE E SUL MONDO DELL’INFORMAZIONE IN GENERALE, A COMINCIARE DAI RAPPORTI TRA BAZOLI E GERONZI, PER FINIRE CON PASSERA E TRONCHETTI, COMPLETAMENTE IGNORATI…

Vai all'articolo precedente Vai all'articolo precedente
guarda la fotogallery

Massimo Mucchetti per il Corriere della sera

Non accadde perché il 31 dicembre 2002, contrariamente a quel che si è detto, durante una colazione rimasta segreta, Vincenzo Maranghi rifiutò l'aiuto di Antoine Bernheim.
Il prezzo fu la perdita del potere. Anche perché Salvatore Ligresti, forse irritato per una lettera di Maranghi che lo richiamava ai suoi doveri in Fondiaria-Sai, passò con Cesare Geronzi, che aveva fatto l'accordo con i francesi, pur contenuti al 10-11 per cento.
Sebbene indeboliti, i francesi sono ancora lì, in piazzetta Cuccia.

«Écoutez moi, ils n'ont pas le nombre de voix qu'il faut pour voter la censure dans le pacte de syndicat. C'est à nous d'éclaircir ce contexte. Allez à l'assemblée et vous verrez que nous aurons assez d'amis pour renverser la situation...»
(«Mi ascolti, non hanno i voti necessari per votare la sfiducia nel patto di sindacato. Tocca a noi chiarire il contesto. Vada in assemblea e vedrà che avremo abbastanza amici per rovesciare la situazione», ndr).

Vincenzo Maranghi non lo lasciò finire, si levò in piedi lungo e magro com'era, e calò un pugno sul tavolo proprio davanti ad Antoine Bernheim, seduto al posto d'onore per il privilegio dell'età. Tremarono stoviglie e bicchieri.

«Assez dit, monsieur Bernheim!», gli urlò, fissandolo negli occhi. «Si j'allais savoir qu'un participant du pacte a acheté des actions en violation du pacte, je demanderai de convoquer le pacte et j'avancerai au Président la requête de son expulsion immédiate!» («Basta, signor Bernheim! Se vengo a sapere che un membro del patto ha comprato azioni in violazione del patto stesso, chiederò la convocazione dei soci e chiederò al Presidente l'espulsione immediata!», ndr).

Il francese si alzò anche lui e, abbandonando la sala da pranzo di Mediobanca, sibilò: «Monsieur Maranghi, si tu te conduis comme ça avec tes amis, je n'ose pas imaginer ce que tes ennemis pourront faire contre toi!» («Maranghi, se ti comporti così con i tuoi amici, non oso pensare cosa potranno fare contro di te i tuoi nemici!», ndr).

Gli altri commensali rimasero impietriti. Erano le 15 del 31 dicembre 2002. Il direttore centrale Alberto Nagel, accomodato alla destra dell'amministratore delegato Maranghi, l'altro direttore centrale Renato Pagliaro, seduto alla destra di Bernheim sull'altro lato del tavolo, e il suo vicino Fabrizio Palenzona, vicepresidente di Unicredit, avevano appena assistito alla rottura tra Mediobanca e l'ultimo esponente della maison Lazard ancora legato a Mediobanca.

Vecchia di mezzo secolo, l'alleanza tra le due ditte si era di fatto consumata tra il 1997 e il 1998. Tra Antoine e Vincenzo erano già volate anche parole grosse, rigorosamente in francese: cochon, traître, maiale, traditore. Ma questa volta avevano passato il segno: se accolto, l'aiuto del banchiere parigino, invitato a quella colazione quale presidente delle Generali, avrebbe determinato il commissariamento di Mediobanca ad opera dei francesi; rifiutandolo, Maranghi riduceva le proprie chance di resistere a Capitalia e Unicredit, che volevano prendere il potere in quella banca milanese dove, pur avendo direttamente e indirettamente il 22% delle azioni, non contavano nulla perché tutto era deciso dal management allevato dal leggendario fondatore, Enrico Cuccia.

Quell'autoreferenzialità, a dire il vero, aveva risolto all'italiana il conflitto d'interessi tra Mediobanca e i suoi soci, al tempo stesso clienti o concorrenti. Ma questi erano dettagli di corporate governance buoni per le anime belle, non certo per chi difendeva un grande potere o agognava a conquistarlo.

Per capire la posizione attuale in Mediobanca e nelle Generali di Vincent Bolloré, allievo e sodale di Bernheim, e del gruppo assicurativo Groupama, che fino alla gestione di Jean Azéma era a lui collegato, bisogna risalire proprio a quella fatidica giornata e ai suoi due protagonisti.

Era consuetudine in Piazzetta Cuccia far seguire una colazione leggera ai consigli di amministrazione, ma le tensioni tra gli azionisti e i consiglieri avevano sospeso il rito conviviale. Del resto, quello del San Silvestro 2002 era un lunch diverso, ristretto alla cerchia più intima, con il nemico alle porte. Un consiglio di guerra.

Palenzona vi era stato invitato perché contrario all'intesa contro Maranghi fatta dal suo amministratore delegato, Alessandro Profumo, con Cesare Geronzi, presidente di Capitalia, auspice il governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio.

Una posizione scomoda che Palenzona pagò poi con un provvisorio allontanamento da Mediobanca. Ma che ci faceva Bernheim? Questa è una lunga storia. Il francese era legato a Mediobanca con il filo d'acciaio delle Generali fin dal remoto 1973, quando la Montedison di Eugenio Cefis vendette alla società lussemburghese Euralux un grosso pacchetto di azioni della compagnia, messo assieme negli anni 50 dalla Montecatini, sua progenitrice. Bernheim è Bernheim per via di Euralux, uno dei miti misteriosi della finanza italiana.

LA VERITÀ SU EURALUX

In una società a proprietà assai diffusa com'erano le Generali, il 4,8% messo in vendita da Cefis poteva destabilizzare gli assetti di comando. E così il senatore Cesare Merzagora, allora presidente della compagnia, preso atto della svolta di Foro Buonaparte, chiese a Enrico Cuccia di trovare un acquirente affidabile. Cuccia propose l'affare ai suoi amici della Lazard. Che tuttavia non potevano o non volevano farsene interamente carico. Di qui l'idea di Euralux e i pubblici ringraziamenti di Merzagora, undici anni dopo.

Bernheim era uno dei tre associé-gérant della Lazard (gli altri due erano Michel David-Weill e Jean Guyot) che con André Meyer e suo figlio Philippe e le società della maison costituivano la maggioranza di Euralux al momento della fondazione, il 13 marzo 1973. Quei banchieri parigini, quasi tutti di estrazione ebraica, erano i principi della finanza del Vecchio continente.

Gli altri azionisti della prima ora erano tre: le stesse Generali, tramite l'affiliata francese La Concorde; gli Agnelli, che tuttavia nel 1976 cedettero la Sai, cui avevano intestato la quota Euralux, al calabrese Raffaele Ursini, il quale a sua volta la passerà a un prezzo risibile all'emergente immobiliarista siciliano Salvatore Ligresti, nelle more della bancarotta Liquigas; infine Camillo De Benedetti, rappresentato da due banche, la Les Fils Dreyfus & Cie di Basilea e la Compagnie de Banque et d'Investissements di Ginevra.

Con la quota Euralux e il cospicuo pacchetto Generali della moglie, la gentildonna padovana Isa de' Corinaldi, Camillo De Benedetti era forse il maggior azionista privato del Leone. Ciò nonostante non gli era mai riuscito di andare oltre la vicepresidenza. Perciò nel 1989, assieme a Raul Gardini, finanziato dalla Comit di Enrico Braggiotti, aveva scalato la Fondiaria di Firenze.

Un'aperta sfida alle Generali e a Mediobanca, che considerava la Fondiaria una perla della sua corona. Nel 1990, il riservatissimo Camillo, cugino ma non sodale d'affari del più famoso e loquace Carlo De Benedetti, mise in vendita le azioni Euralux per fare cassa. Il grosso finì a Lazard, una parte a Sai e un'altra al setaiolo comasco Antonio Ratti (che comprò per 30 miliardi di lire e 9 anni dopo rivendette per 121 a Mediobanca). Ma il peso dei debiti schiacciò Camillo, Gardini e i Ferruzzi (mentre Braggiotti senior riparò a Montecarlo con 50 milioni di dollari, ottenuti sottobanco dai romagnoli e un incarico alla corte dei Grimaldi).

Grazie a quel rigiro, Mediobanca aveva formato con i suoi alleati una minoranza di blocco in Euralux, la quale, peraltro, aveva con Mediobanca un patto per il governo delle Generali. Per questo, nel 1995, Bernheim, a lungo presidente di Euralux, ottenne la poltronissima di Trieste.

Ma nel 1997, il banchiere parigino portò le Generali all'attacco delle Assurances Générales de France senza avere né i capitali né la benedizione di Mediobanca: aveva, è vero, il sostegno di Gerardo Braggiotti, segretario generale di Mediobanca e figlio del latitante Enrico, poi uscito dalle indagini per vizio di forma, ma gli mancava quello, decisivo, dell'amministratore delegato e di Cuccia.

E di lì a poco, su segnalazione di Bernheim, proprio Lazard assunse Braggiotti jr., appena licenziato da Maranghi per aver ricercato l'appoggio di soci come Agnelli, Tronchetti Provera e Profumo contro il superiore. E proprio Braggiotti jr. consiglierà Unicredit e Sanpaolo nel doppio tentativo di scalata a Comit e Banca di Roma che, ove non fosse stato fermato dalla Banca d'Italia, avrebbe colpito al cuore Mediobanca.

Ce n'era abbastanza per rompere. Bernheim, reo di aver schierato Generali con Unicredit sul fronte Comit, venne cacciato dalle Generali nel 1999. Poco dopo, indebolita dai raid di Bolloré, teleguidato dal vecchio Antoine ormai in freddo con i partner parigini, Lazard dovette uscire da Mediobanca e disfarsi di Euralux. Fu a quel punto che Maranghi, forte delle minoranze amiche, ebbe buon gioco nel rilevare le azioni Euralux raggiungendo così il 14% delle Generali e il primato a Trieste, il suo capolavoro.

E Bernheim? Bernheim era tornato sul trono del Leone, grazie alla moral suasion esercitata su Maranghi da Unicredit, che così lo ripagava per l'appoggio ricevuto nel 1999. Senza più una Lazard alle spalle, il francese aveva ripreso a collaborare con Mediobanca, che ne avallava i favolosi compensi riconosciuti dalla compagnia.

Per questo, Bernheim vantava alcuni titoli per partecipare a quella colazione ristretta, ma non abbastanza per istituire un protettorato francese su Maranghi e la principale banca d'investimento italiana.

LA SCELTA DI LIGRESTI

Fiorentino d'origine, Maranghi era il delfino di Cuccia. Da tre lustri gestiva Mediobanca in prima persona, ancorché il placet del fondatore fosse considerato la conditio sine qua non dei grandi affari. La battaglia contro di lui era venuta allo scoperto nel 2000 in occasione dei funerali di Cuccia, durante i quali Geronzi e Fazio, non invitati alle esequie dalla famiglia e tuttavia presenti in prima fila, avevano offerto la loro non richiesta protezione.

Nello stesso anno, il governatore aveva suggerito il professor Berardino Libonati quale nuovo presidente di Mediobanca. Troppo geloso dell'indipendenza della ditta per accettare un nome altisonante ma troppo vicino a un socio specifico, in quel caso Capitalia, Maranghi difese la presidenza di Francesco Cingano, già banchiere Comit e vecchio amico. Di cui viene tuttora esposta la foto in bianco e nero, incorniciata d'argento, nella sala del consiglio di Mediobanca, assieme a quelle di Cuccia, Maranghi, Adolfo Tino e Raffaele Mattioli.

A fine 2002, Geronzi e Profumo spingevano per portare alla presidenza il professor Piero Giarda, economista, già membro del governo Prodi, uomo indipendente e oggi ministro dei Rapporti con il Parlamento nel governo Monti. Ma il punto erano gli sponsor di Giarda: per Maranghi, il presidente doveva rispondere alla compagine azionaria interpretata dal management e non soltanto ai soci bancari in conflitto d'interessi. Questo non vuol dire che Maranghi volesse estromettere Capitalia e Unicredit dal patto di sindacato. Anzi. Il patto dominava l'assemblea e doveva continuare a farlo, ma senza nessuno che ne prendesse la guida. Divide et impera, era la filosofia dei manager.

Nella Comit degli anni 20, il banchiere Giuseppe Toeplitz era soprannominato dai dipendenti il Padrone, con stima, affetto e timore. Se i colletti bianchi di Mediobanca avessero fatto altrettanto con Maranghi (che lascerà tra gli applausi di tutti i dipendenti nel cortile di Piazzetta Cuccia, caso unico tra i banchieri italiani), non sarebbe stato improprio. Ma in quei giorni la capacità di pressione di Geronzi e Profumo era alta. Molti dei soci industriali di Mediobanca - da Fiat a Pirelli - erano proni alle due banche da cui erano finanziati molto più che da Mediobanca. E tuttavia Maranghi non considerava ancora persa la partita. Credeva di poter contare su Ligresti.

D'accordo con il suo mentore Cuccia, Maranghi aveva salvato il re del mattone nel 1988, per ottenere l'assenso di Craxi alla privatizzazione di Mediobanca, e ancora negli anni Novanta, dopo Tangentopoli. Nel 2001, l'aveva perfino condotto alla presa di Fondiaria. Maranghi voleva evitare che la compagnia fiorentina andasse alla Fiat nel momento in cui Torino, con l'appoggio delle banche e di Electricité de France e contro Mediobanca, scalava la Montedison, che possedeva il controllo di Fondiaria.

Giovanni Agnelli e Paolo Fresco, con superba incoscienza, progettavano il polo assicurativo Toro-Fondiaria, mentre la Fiat, piena di debiti, correva verso il baratro. Maranghi voleva salvare potere e clienti.

Ligresti era il soggetto adatto. L'operazione fu assai discussa. Per evitare di dover lanciare l'Opa su Fondiaria, la Sai fece assumere il controllo di fatto della compagnia fiorentina a cinque cosiddetti cavalieri bianchi (Jp Morgan, Micheli, Mittel, Interbanca e Commerzbank) da cui rilevò poi le azioni. Una pagina nera per la Consob, la Commissione di vigilanza sulla Borsa. Una prova di forza, l'ultima, della vecchia Mediobanca.

Maranghi conosceva bene Ligresti, socio e cliente. Pregi e difetti. Perciò, a scalata conclusa, gli aveva recapitato una lettera scritta a mano, menzionata dall'Antitrust quanto alla data (30 maggio 2002), ma coperta da omissis nel contenuto. Vi si legge: «Sono convinto che il Suo senso di responsabilità, la Sua esperienza e la giusta attenzione al valore del Suo investimento, La rendono consapevole che la gestione del secondo gruppo assicurativo italiano non può più avere un "taglio" famigliare, ma postula un "cambio di passo" che, in parole semplici, significa il più rigoroso rispetto degli interessi di tutti quanti dovranno concorrere alle fortune della nuova Compagnia: soci, dipendenti, agenti, collaboratori e clienti.

Sono parimenti certo che Lei si rende conto che i veri padroni di una Compagnia di Assicurazione, soprattutto di questa "taglia", sono gli assicurati, essendo a loro vincolata e destinata la grandissima parte del patrimonio societario. La gestione di questo patrimonio, ove non fosse allineata ai migliori standard della professione, finirebbe per innescare una crisi di fiducia nella clientela, con conseguenze gravissime per Fondiaria Sai».

Non sappiamo come l'ingegnere di Paternò aveva preso quel richiamo. Certo è che, al dunque, abbandonò Maranghi per Geronzi, con il quale, peraltro, aveva confidenza fin dai primissimi anni 90. Gli effetti si videro subito e si vedono tuttora. All'inizio del 2003 l'Antitrust ingiunse a Mediobanca di vendere il suo storico 13% di Fondiaria perché la stessa Mediobanca, avendo un'analoga quota di Generali, si trovava in conflitto d'interessi.

Il combinato disposto di un'Authority cieca, la Consob, e di un'altra occhiutissima, l'Antitrust, consentirà alla famiglia Ligresti di spadroneggiare estraendo dalla compagnia stipendi, consulenze, dividendi e addossandole palazzi, partecipazioni e perfino i cavalli della giovane Jonella. Con il favore di Geronzi e del premier Silvio Berlusconi, la Sai entrerà anche in Rcs MediaGroup.

La scelta di campo di Ligresti coincide con il rastrellamento di azioni Generali fatto da Unicredit e Capitalia, sostenute dal Monte dei Paschi, neutrale Banca Intesa. L'iniziativa venne giustificata come reazione a una scalata occulta francese alla compagnia triestina. In realtà, da Parigi nessuno aveva dato ordine di comprare Generali, ma, come aveva fatto capire Bernheim nel lunch di San Silvestro, i francesi avevano già tante Mediobanca in portafoglio.

Lo scopo dello sbarco a Trieste era quello di rendere chiaro a tutti che il pacchetto Generali di Mediobanca aveva valore e potere fino a quando altri, più forti, non ne avessero messo assieme uno maggiore. A quel punto ogni altra resistenza avrebbe impoverito Mediobanca. Maranghi ne prese atto e il 25 gennaio 2003 informò Paolo Biasi, presidente della Fondazione Cariverona, primo azionista di Unicredit, che era pronto a lasciare senza una lira di buonauscita o un atto ostile, purché fosse salvaguardata l'autonomia del suo management: gesto raro.

IL MISTERIOSO PACCHETTO FRANCESE

Un anno dopo, nel corso di un'audizione parlamentare, il governatore Fazio parlerà di un pacchetto azionario del 20% di Mediobanca rastrellato dai francesi favoriti da un amministratore. Forse Fazio era disinformato su Maranghi, che aveva sacrificato la sua posizione pur di non dipendere dai francesi. Certo è che, fin quando Maranghi regnò in piazzetta Cuccia, i francesi ebbero solo l'1% nell'ambito di un sindacato azionario che, con le quote fuori patto, sfiorava il 60% del capitale.

Chi mai avrebbe potuto attaccare? Nella sua lettera di replica a Fazio, Maranghi non riteneva credibile che i francesi avessero potuto accumulare un pacchetto del 20% senza che le quotazioni ne risentissero. Ma già nel 2003, alla ridefinizione del patto di Mediobanca, i francesi Bolloré, Groupama, Dassault e lo spagnolo Botin, vennero autorizzati a sindacare il 10-11% del 25% che si diceva avessero, mentre le banche azioniste, Capitalia e Unicredit, si impegnavano a ridurre le proprie partecipazioni al 6% e Groupama a vendere il 2% extra patto.

IMPEGNO MAI MANTENUTO DA NESSUNO.
Bernheim e Bolloré trovarono in Geronzi l'alleato che non volle essere Maranghi. E tuttavia non riuscirono mai a combinare un affare vero. Non riuscirono nemmeno, Bolloré e soci, a disfarsi per intero del loro pacchetto, come invece avevano fatto con i titoli del mondo Lazard che avevano rastrellato e che la maison si era ricomprata.

Avevano in carico le Mediobanca a 12 euro, quando nel 2005 le fecero proporre a Banca Intesa: il 15% subito a 19-22 euro per azione con l'opzione di ritirare a prezzo bloccato il restante 10% alla scadenza del patto di sindacato nella primavera del 2006. Si narra che Giovanni Bazoli abbia lasciato cadere l'offerta senza tentennare: Generali erano leali e preziose azioniste di Intesa; non aveva senso politico invadere territori altrui.

Con Geronzi, prima presidente di Mediobanca e poi di Generali, i francesi hanno avuto il loro momento di massima influenza. Al punto che, all'inizio del 2011, Bolloré e Groupama avevano cercato di affiancare Ligresti nel salvataggio del suo gruppo immobiliare e assicurativo. Ma la reazione di Unicredit dopo Profumo e di Mediobanca dopo Geronzi li ha fermati. E l'improvviso emergere di gravi perdite nei conti di Groupama ha fatto saltare Jean Azéma, isolando Bolloré in Piazzetta Cuccia.

Il bilancio della scorribanda avviata sette anni fa per portare in Francia qualcosa di grande - Mediobanca, Generali, Fondiaria Sai - si conclude al momento con un nulla di fatto e con il titolo Mediobanca sotto i 5 euro. Sono altri i francesi che hanno fatto vere conquiste in Italia: Crédit Agricole, Bnp Paribas, Electricité de France, Alstom, Alcatel, Lactalis, tutte aziende che hanno inseguito propri piani industriali.

Bolloré, invece, ha giocato sulle divisioni tra i Guelfi e i Ghibellini della finanza italiana ed è rimasto a bocca asciutta. Ma questo finanziere bretone dal tratto rude ha ancora fiato. In questa partita ha già perso il perdibile. La crisi - per esempio: se Fondiaria Sai non si salva con nuovi azionisti, Mediobanca dovrebbe svalutare per centinaia di milioni il prestito subordinato fatto a suo tempo a Ligresti - può di nuovo scompaginare i giochi di ciascuno.

 

Lucchini e Mucchetti gero19 ligresti figlia2 ger03 ligresti ceccherini geronzivincenzo maranghi 001 lapALESSANDRO PROFUMO JONELLA LIGRESTI old gero08 antonio faziovincenzo maranghi Il Sole24Oregsc 116 sal ligresti al profumo9 vincent bollore antoine bernheim lapPALENZONAVincent Bollore e Alberto Nagel foto LaPresse SARKOZY E BOLLORE RENATO PAGLIARO P MEDIOBANCA 9 elia valori vincent bollore lapRenato Pagliaro Mediobanca e Cesare Geronzi Generali enrico cuccia02 lapagnelli enrico cucciaAntoine Bernheim Generali con Cesare Geronzi Mediobanca BERNHEIMValori e Bernheimbernheim geronziENTRATA MEDIOBANCA 9 antoine bernheim lap1Raul GardiniPaolo Biasi LE PARTECIPAZIONI MEDIOBANCA GENERALI Vincent Bollorè Antoine Bernheim9 antoine bernheim lap2Vincent Bollorè Antoine Bernheim