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1. IL PICCOLO CLUB DEI SUPER RICCHI: CHI SONO E COME INVESTONO I LORO 5.864.000.000.000.000.000 DI EURO
Cecilia Pierami per "Il Messaggero" – da Il Foglio del lunedì
Se per diventare cliente del Private basta avere un patrimonio da mezzo milione di euro, per partecipare alla partita dei billionaire serve qualche dollaro in più: mille milioni. Il club dei super Paperoni, nel 2014, secondo lo studio «Billionaire Census» realizzato da Wealth-X, società di studio specializzata nel settore, e dall’istituto elvetico Ubs, conta 2.325 membri, il 7% in più rispetto al censimento realizzato nel 2013, per un patrimonio complessivo di 5,86 trilioni di euro (5.864.000.000.000.000.000).
Gli Stati Uniti si confermano il regno dei Paperoni in miliardi (609 in tutto) sotto il profilo della concentrazione, mentre l’Europa è il continente dove se ne trovano di più, ben 775 con una ricchezza più o meno simile. Se si guarda invece alle città con più super ricchi, la maglia rosa va all’Asia, con otto metropoli fra le prime venti. E se nell’economia dell’uomo della strada l’Italia arranca, nell’ultimo anno ha visto invece crescere quasi del 14% il numero dei super ricchi, passati da 29 a 33, con una ricchezza complessiva di 115 miliardi di euro che pone il nostro Paese al 15esimo posto.
LEONARDO DEL VECCHIO MOGLIE NICOLETTA ZAMPILLO
Se lo studio di Wealth-X e Ubs non fa nomi, ci pensa invece quello di Bloomberg con la sua classifica dei 200 più ricchi al mondo a fare nomi e cognomi: a capo del piccolo club italiano (trentesimo nella graduatoria assoluta) troviamo il re del cioccolato Michele Ferrero con un patrimonio di 23,4 miliardi di dollari, seguito, al 43esimo posto della classifica generale, da Leonardo Del Vecchio, fondatore di Luxottica di recente finito in prima pagina per problemi di successione alla guida del suo gruppo, con 17,3 miliardi di dollari. Viene poi Stefano Pessina, terzo italiano della classifica con 10,8 miliardi di dollari, proprietario del 18% di Alliance Boots.
Secondo lo studio Wealth-X/Ubs, i settori che contano più super Paperoni sono quello della finanza (19%) seguito da quello dei grandi conglomerati industriali (12%). Circa il 60% è quello che si definisce un self made man, cioè uno che ha accumulato il proprio patrimonio partendo dal nulla. Mediamente i billionaire hanno un patrimonio costituito per il 47% da investimenti privati, per il 29% da società quotate in Borsa, per il 5% dall’immobiliare e per il 19% dalla liquidità.
Dopo essere diventati straricchi è però necessario curare quanto guadagnato, soprattutto quando gran parte del patrimonio è svincolato o liquido. «I clienti di questa fascia – spiega Simon Smiles, direttore investimenti di Ubs Wealth Management – optano per mantenere quasi il 20% del proprio patrimonio liquido. In parte è una scelta dettata da prudenza, si aspetta un momento migliore per poter investire; dall’altra la liquidità dà sicurezza.
Ma in un periodo come questo dove troviamo tassi e inflazioni molto bassi, non fare equivale a perdere denaro. Oggi bisogna rischiare per far fruttare questa parte di patrimonio o attraverso maggiori rischi di credito, o di tasso, oppure investendo in valute che pagano interessi più alti assumendosi però la relativa incognita legata al cambio».
E comunque non c’è miliardario che non abbia affidato i suoi averi a una qualche struttura di private equity, sempre più specializzate e sempre più circolari per rispondere ai crescenti bisogni di una clientela che cresce anche in termini di esigenze.
2 - IL PICCOLO CLUB DEI SUPER RICCHI
Luca Rigamondi per "Il Messaggero" da Il Foglio del lunedì
Michele Ferrero insieme ai figli Giovanni (a sinistra) e Pietro (a destra)
In Italia sono 633.273 le famiglie che definire ricche non è esagerato: sono quelle che possono disporre di un patrimonio di almeno mezzo milione di euro. E la loro ricchezza totale è una cifra da capogiro: 983 miliardi di euro. Metà della quale viene gestita dal Private Banking, cioè l’insieme di servizi bancari e finanziari offerti ai Paperoni. I quali, però, sfruttano solo in parte le enormi potenzialità di questi servizi, tanto che solo il 27% dei clienti Private ritiene la consulenza sull’intero bilancio familiare un elemento distintivo rispetto all’offerta bancaria standard. Solo il 18%, poi, cita come servizio importante del Private la tutela del patrimonio, il 15% la consulenza per i servizi immobiliari, il 14% l’advisory sul passaggio generazionale.
In altre parole, in Italia i clienti del Private sfruttano poco o nulla il servizio di Wealth Management, che da parte delle banche sta diventando invece sempre più un elemento distintivo e un servizio sul quale puntare per il futuro. Anche perché più della metà dei clienti Private è rappresentato da imprenditori o professionisti, per i quali questo strumento può rivelarsi indispensabile per gestire dinamiche familiari, aziendali e finanziarie complesse.
«Il professionista e il titolare di un’impresa medio piccola – conferma infatti Maurizio Zancanaro, presidente dell’Aipb (l’Associazione Italiana Private Banking) – sono le figure che meglio rappresentano la quota principale di clientela servita dal Private Banking. Proprio queste figure, protagoniste delle nostre più recenti indagini di mercato, si autorappresentano come una sorta di figura di confine tra due mondi. Da una parte c’è i l mondo dell’impresa della cui vita si sentono responsabili e, in quanto titolari, se ne occupano attivamente; dall’altra sono responsabili del loro patrimonio.
Questi campi sono le fonti della loro sicurezza economica, ma il coinvolgimento che l’imprenditore/professionista manifesta nei confronti di queste due aree appare molto diverso». Due mondi a parte, insomma, senza quell’integrazione e quella visione d’insieme che invece è il cuore del Wealth Management. «Nei confronti dell’impresa – spiega Zancanaro – il coinvolgimento è totale: l’impresa è qualcosa di vivo, precario, difficile da gestire. Soprattutto in un contesto come quello attuale che richiede competenze variegate. L’imprenditore/professionista giorno per giorno si coinvolge nella difesa dell’impresa della quale si sente responsabile in prima persona».
Quando invece si tratta di pensare a tutelare il proprio patrimonio, «l’atteggiamento appare diverso: la gestione è delegata, anche se sotto controllo, ed esiste sempre una figura di corrispondente tecnico che se ne occupa, appunto il nostro private banker.
Certo è che se la definizione di Private Banking utilizzata abitualmente deve continuare ad essere “tempo di qualità messo a disposizione del cliente” è fondamentale che questo tempo venga utilizzato per una diagnosi vera, che richiede tempo per una intervista un po’ più attenta, con più ascolto e meno vendita quindi con più attenzione a quello che il soggetto dice di sé, della sua vita, della sua famiglia per la ricerca di indizi che permettano di aprire degli spirargli sui quali esercitare poi una consulenza». In modo da indirizzare i clienti anche verso servizi che, magari perché molto innovativi o perché erroneamente percepiti come “invasivi”, possono invece fare la differenza nella gestione del patrimonio.
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