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Emanuele Scarci per "Il Sole 24 Ore"
Con la crisi dei consumi è fuga dal commercio. Il 2013 potrebbe trasformarsi nell'annus horribilis dell'imprenditoria commerciale. Nel primo bimestre sono spariti quasi 10mila negozi, soprattutto per l'inaridirsi della voglia d'impresa: le nuove aperture infatti sono franate del 50%. E «se il trend restasse invariato - spiega Mauro Bussoni, vicedirettore generale di Confesercenti - a fine anno registreremmo la scomparsa di 60mila negozi, con ovvie conseguenze su economia e occupazione».
Un'ipotesi da incubo ma che potrebbe realmente realizzarsi: nel primo bimestre dell'anno, hanno chiuso i battenti 13.755 aziende, mentre le aperture si sono fermate a 3.992, per un saldo negativo di 9.783 unità . Praticamente, sono sparite oltre 167 imprese al giorno.
Intanto Confesercenti stima che nei primi tre mesi il saldo negativo potrebbe essere di 14.674 unità , 4mila unità in più rispetto al 2012. La sintesi di 20.622 cessazioni e 5.988 nuove iscrizioni. «Un'ecatombe - precisa Bussoni - con 200mila addetti in meno. Ma anche i pubblici esercizi vivono un momento difficilissimo: nel trimestre potrebbero aver abbassato la saracinesca più di 9.500 tra bar, ristoranti e tavole calde, con un saldo finale negativo di 6.401 unità ».
Le cause? Ovviamente i dettaglianti puntano il dito contro le liberalizzazioni, la crescita della grande distribuzione e le aperture domenicali, ma, sotto sotto, sanno che il motivo principale è la crisi economica con decine di migliaia di persone senza lavoro o in cassa integrazione e con il reddito delle famiglie falcidiato. Bussoni sottolinea che «non si fa più impresa. Il rischio di fallimento è cresciuto enormemente e nemmeno chi viene espulso da altre attività trova il coraggio di aprire un'attività commerciale».
Nella mappa della crisi del commercio al dettaglio, nel primo bimestre dell'anno i risultati peggiori si registrano al Centro nord: 7.885 chiusure a fronte di 2.054 aperture. Sud e isole resistono meglio con 5.890 cessazioni e 1.938 nuove iscrizioni. Tra i comuni capoluoghi di provincia, la maglia nera va a Roma, con 553 chiusure per un saldo negativo di 392 unità ; seguono Torino (306 cessazioni, saldo negativo di 231 unità ) e Napoli (238 cessazioni e un saldo di -133 imprese).
Diversa la mappa nel decennio 2002-2012: il dato globale (si tratta di imprese alimentari specializzate, eccetto le bevande e i tabacchi) indica una riduzione di circa un quarto del numero dei dettaglianti a 36.500. A livello provinciale quella di Milano perde quasi la metà delle imprese, precisamente il 47%; seguita da Firenze, -35%, e da Palermo, -34%. «In Lombardia - spiega Bussoni - la crescita delle catene commerciali è stata rapidissima e ha finito con l'espellere, con altrettanta velocità , i piccoli negozi».
Infatti Milano presenta il numero più basso di esercizi di vicinato alimentare in rapporto alla popolazione, 0,8 ogni mille abitanti, dopo Bolzano, 0,7 per mille. In coda alla classifica Perugia, -3,6% dei negozi in dieci anni, Potenza, -6%, e Bari, -8,9 per cento.
Un segnale del malessere diffuso arriva dalla desertificazione dei centri città . Secondo una ricerca condotta da Anama-Confesercenti, in Italia i negozi sfitti per assenza di imprese sono ormai 500mila per una perdita annua di 25 miliardi di euro in canoni non percepiti. Secondo l'indagine tra i capoluoghi presi in esame il centro storico più desertificato è quello di Cagliari, con il 31% dei negozi chiusi, quasi uno su tre. Seguono Rovigo (29%), Catania (27%) e Palermo (26%). Nelle periferie delle città il fenomeno è ancora più forte.
Che fare? «La deriva - conclude Bussoni - va arginata promuovendo politiche per ridurre gli aggravi fiscali per cittadini e imprese e per favorire il rilancio dei consumi e del mercato interno. Ma è anche necessario intervenire sui problemi particolari del settore, come il canone revisionabile: un sistema che coniuga le necessità di messa a reddito degli immobili commerciali con il bisogno delle imprese di crescere».
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