DAGOREPORT – AVVISATE IL GOVERNO MELONI: I GRANDI FONDI INTERNAZIONALI SONO SULLA SOGLIA PER USCIRE…
1. IL COMPRATORE DEL BOSTON GLOBE HA SPESO DI PIÃ PER UN GIOCATORE DI BASEBALL
Da "il Foglio"
Nel 2010 il Washington Post vendette Newsweek per appena un dollaro, pur di liberarsi dei 40 milioni di debiti in cui la rivista affondava. Il rilancio (digitale) fu affidato dal nuovo editore, Ibt Media, alla tostissima Tina Brown. Da domenica sappiamo che Brown ha fallito, e che dopo tre anni di insuccessi e perdite Newsweek sarà venduta di nuovo, per frazioni del suo valore.
La stagione dei saldi è iniziata la settimana scorsa, quando John Henry, proprietario dei Red Sox (comprati nel 2002 e portati nel 2004 al loro primo titolo, bissato nel 2007) e del Liverpool (comprato nel 2010 con tutto lo stadio) ha concluso un accordo con la New York Times Company per la cessione del Boston Globe.
Il New York Times aveva comprato il Globe nel 1993 per 1,1 miliardi di dollari, uno dei prezzi più alti mai pagati per l'acquisto di un giornale. Vista oggi quella cifra è impensabile, ma ancora due mesi fa creavano scandalo le voci secondo cui il Times stava ricevendo per il Globe offerte intorno ai 100 milioni: era incredibile che un giornale con una storia più che centenaria alle spalle, 22 premi Pulitzer e più di 300 giornalisti potesse valere così poco. Ma erano due mesi fa, e venerdì scorso il Globe è andato in vendita a John Henry per 70 milioni. Meno dei 110 (in 8 anni) che Henry ha speso per la sua seconda base Dustin Pedroia o degli 82 (in 5 anni) per il lanciatore John Lackey.
John Henry non ha comprato il solo Globe, ma tutta la sua compagnia di informazione (il New England Media Group), che comprende anche il quotidiano locale Worcester Telegram & Gazette. Nel 1999 il solo Worcester valeva 295 milioni di dollari, e questo è un dato sufficiente per raccontare l'abisso finanziario in cui è caduto il Globe e i prezzi da saldi di fine stagione a cui è stato venduto.
Henry entrerà negli edifici del Globe sapendo che gran parte del lavoro sporco è già stato fatto (negli anni scorsi il Times ha combattuto e vinto durissime battaglie contro i sindacati dei giornalisti del Globe, facendo grandi tagli e rendendo flessibili i contratti) e consapevole che nei muri, più che nei giornalisti di valore, sta la sua polizza assicurativa. La sola sede del Globe, situata in una grande proprietà nel centro di Boston, ha un valore che viene stimato superiore ai 70 milioni con cui Henry ha pagato l'edificio e tutto quello che c'è dentro.
La scelta della New York Times Company di privarsi del Globe è solo in parte giustificabile con "i problemi di tiratura e introiti" di cui parla il comunicato ufficiale. E' vero che dal 2003 il Globe ha perso quasi la metà dei suoi lettori e che oggi vende meno dell'Honolulu Star, ma i numeri erano in (leggero) rialzo e solo l'anno scorso gli abbonamenti digitali sono aumentati del 70 per cento.
Soprattutto, il Globe è un giornale di altissima qualità , rimasta tale nonostante la crisi. Memorabile la copertura quasi eroica dell'attentato alla maratona di Boston. Alla fine di quella settimana di aprile nella redazione del Globe arrivò pizza sufficiente per il pranzo di tutti i giornalisti. A pagarla, da migliaia di chilometri di distanza, era stata la redazione del Chicago Tribune: "Ci avete reso fieri di essere giornalisti", avevano scritto i colleghi in un messaggio.
Difficile scrutare nelle strategie di mercato del Times, impegnato da qualche tempo in un'opera di "snowfallizzazione" del giornale (da Snow Fall, il progetto multimediale che ha vinto il Pulitzer nel 2012: più digitale, più informazione globale, meno radicamento sul territorio), ma la svendita di un giornale di qualità che per la prima volta in vent'anni mostrava segni di recupero (e in un periodo in cui anche il Times registra utili) sembra rispondere più a esigenze editoriali che al bisogno di far cassa.
Per il Globe queste esigenze prevederanno una sua riduzione a giornale locale: fin dal suo primo comunicato John Henry ha insistito sull'integrazione con la comunità di Boston. Sono due trend che si uniscono: quello dei facoltosi magnati che acquistano i giornali delle loro comunità di origine (capostipite Warren Buffett e il suo Omaha World Herald) e quello dei giornali locali americani che, dopo un'espansione che li aveva resi diffusi in tutto il mondo tornano, costretti dalla contrazione della carta stampata, alla loro vecchia vocazione.
2. COSÃ TRAPASSA "NEWSWEEK" - FALLISCE ANCHE IL PIANO DEL SETTIMANALE DIGITALE
Marco Bardazzi per "la Stampa"
Era nato nel pieno della Grande Depressione, mentre l'America reagiva alla crisi pensando in grande e innalzando grattacieli come l'Empire State o il Chrysler di New York. Ã praticamente morto 80 anni dopo, per non aver capito come occorra reinventarsi nel XXI secolo, in tempi di nuova recessione globale.
L'avventura di «Newsweek», una delle testate giornalistiche più famose al mondo, è ricca di sorprese e lezioni. Quello che ancora dieci anni fa era un settimanale da 4 milioni di copie venduto il tutto il mondo, ha cessato di esistere su carta il 31 dicembre scorso, diventando parte del sito web The Daily Beast.
Ma neppure questa cura drammatica, arrivata dopo anni di errori finanziari e giornalistici, è bastata a rilanciare «Newsweek». Nel fine settimana è arrivata la notizia che ciò che resta del magazine fondato nel 1933 e della sua demoralizzata redazione è stato venduto a IBT Media, una società semisconosciuta che ha come pubblicazione di punta la testata «International Business Times».
L'importo dell'operazione non è stato reso noto, così come è incerto il destino che attende il marchio «Newsweek». IBT Media non sembra esattamente un incubatore di grande giornalismo. Dietro la società si vocifera che si nasconda il predicatore asiatico David Jang, un controverso leader evangelico che parla di sé come la reincarnazione di Gesù.
Le spoglie di «Newsweek» finirebbero così per trovarsi in una situazione analoga a quelle della gloriosa agenzia di stampa United Press International (Upi), fondata nel 1907 dall'editore E.W.Scripps e ora semi-scomparsa nell'irrilevanza, dopo essere stata acquistata dalla Chiesa dell'Unificazione del reverendo coreano Sun Myung Moon (quello delle nozze del vescovo Milingo).
Dal 2009, il declino di «Newsweek» è stato inarrestabile. Il settimanale, che aveva un attivo di 30 milioni di dollari nel 2007, due anni dopo era passato a un passivo della stessa entità . E non si è più ripreso. Colpa, tra le tante cose, di scelte editoriali discutibili, di un incomprensibile mix tra reportage seri e articoli di una leggerezza sconcertante, di tentativi di raccontare la politica in una chiave pop che ha fatto inarcare le sopracciglia ai lettori abituali. Non che il genere sia errato in sé. Semplicemente il pubblico di «Newsweek» si aspettava qualcosa di diverso e, non trovandolo più, è migrato altrove.
L'era di Obama è stata fatale a «Newsweek»: non ha trovato la voce giusta per raccontare un presidente completamente nuovo, mentre aveva descritto (e attaccato) molto bene il predecessore.
Né è servita la fusione con The Daily Beast e il tentativo della direttrice Tina Brown di inventare un nuovo «Newsweek» per l'era digitale. Barry Diller, il mogul dei media che con Sidney Harman aveva rilevato la testata per un dollaro (simbolico) dal «Washington Post», già da aprile andava ripetendo che acquisire «Newsweek» era stato un errore. Sopprimere l'edizione di carta - che per ora curiosamente resiste in Europa, nella versione «International» - non è bastato e alla prima occasione Diller si è liberato della testata.
Le lezioni che «Newsweek» non ha capito sono quelle che invece negli Usa sembra aver compreso bene «The Atlantic», un altro magazine storico (ha 150 anni) che sta diventando un modello da studiare per tutto il settore. La regola di fondo è che il problema non è scegliere tra carta o digitale, ma imparare a realizzare su ogni piattaforma il tipo di giornalismo che i lettori si aspettano di trovare collegato a quel particolare «brand». «The Atlantic» oggi è tantissime cose e prospera raccogliendo una miriade di piccoli ricavi che, al momento di tirare le somme, diventano un profitto.
Facile a dirsi, ma tutt'altro che semplice. Il nuovo ecosistema dell'editoria digitale ha regole di selezione naturale che avrebbero incuriosito anche Darwin. Non dominano i carnivori che si nutrono solo di entrate pubblicitarie, né gli erbivori che vivono di abbonamenti. à una catena alimentare che privilegia gli onnivori, capaci di mangiare poco di tutto. E anche di scoprire cibi nuovi.
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