
FLASH! - IL DILEMMA DI GIORGETTI: IL CAPO DELLE PARTECIPATE DEL TESORO E SUO FEDELISSIMO, MARCELLO…
Stefano Agnoli per “il Corriere della Sera”
Nel porto bulgaro di Burgas la Castoro Sei della Saipem ha già iniziato a saldare i tubi che verranno posati sul fondale del Mar Nero: sono i primi pezzi d’acciaio da dodici metri l’uno che serviranno a coprire i 931 chilometri che separano la costa bulgara da quella russa. A breve anche la Saipem 7000 varcherà il Bosforo, in direzione però del litorale russo.
La previsione che il grosso dei lavori inizi prima di fine anno «non è cambiata», spiegano alla South Stream Transport, la joint-venture al 50% della russa Gazprom che insieme all’Eni (20%) alla francese Edf e alla tedesca Wintershall (15% ciascuno) ha il compito di costruire il (cruciale) tratto sottomarino del gasdotto verso l’Europa occidentale.
In realtà, però, la situazione è più complicata di quanto appaia dalle prese di posizione ufficiali: il South Stream, la «corrente del Sud» fortemente voluta negli ultimi sette anni dal presidente russo Vladimir Putin per aggirare l’Ucraina passando dal Mar Nero (e in origine progettata solamente con l’italiana Eni), è in bilico.
La crisi ucraina ha preso il sopravvento. Prima le sanzioni su petrolio e banche russe volute da Obama lo scorso luglio, poi il 18 settembre la risoluzione del Parlamento europeo che ha chiesto agli Stati membri di annullare gli accordi intergovernativi, infine la posizione della renziana Federica Mogherini, Alto rappresentante della politica estera comunitaria: «Al momento non ci sono le condizioni politiche», ha spiegato riferendosi proprio al gasdotto. Un bel mutamento dallo scorso maggio, quando prima del G7 energia di Roma il premier Matteo Renzi dichiarava: noi siamo per confermare l’impegno del South Stream.
Sta per scattare il fischio finale? Possibile, anche se sembra difficile che possa essere annunciato alla vigilia di un inverno che si prospetta complicato sul fronte delle forniture di gas. Di certo il dossier South Stream è ben presente sul tavolo del consiglio di amministrazione dell’Eni, e altrettanto certamente costituisce uno dei temi di discussione del forum euroasiatico che vede oggi a Milano lo stesso Putin.
Qualcosa di più si potrà forse sapere il 4 novembre, quando il ceo dell’Eni, Claudio Descalzi, si presenterà alla commissione Industria del Senato per un’audizione. Il presidente, il senatore pd Massimo Mucchetti, si è esplicitamente pronunciato per una definitiva uscita dall’avventura South Stream.
Ma la cautela, almeno nel breve periodo, pare d’obbligo. E caute sono le dichiarazioni dell’Eni, che risponde di «non avere novità sulla partecipazione» aggiungendo, un po’ burocraticamente, di essere solo «azionista di minoranza» in un progetto che viene monitorato costantemente «per assicurare coerenza con gli obiettivi di disciplina finanziaria». Faccenda delicata quindi, che per di più si snoda in contemporanea con lo scandalo nigeriano che ha messo sotto pressione il suo amministratore delegato.
Rispetto ai primi anni della gestione di Paolo Scaroni, comunque, la posizione dell’Eni sul progetto è cambiata. Tramontata l’era dell’«amico Putin», archiviati i progetti di sbarcare nel ricco upstream russo, rinegoziati i contratti di fornitura del gas siberiano con l’ultima firma dello scorso maggio, a Metanopoli il South Stream non è più ritenuto una strategica pedina di scambio: «Per noi è un investimento finanziario», si dice, e non è un mistero che per l’ «oilman» Descalzi il fulcro del gruppo sia la produzione di petrolio, e, dal punto di vista geografico, l’Africa piuttosto che la Russia o il Caspio. Il petrolio, per inciso, rende assai più del progetto con Gazprom, destinato a subire anche la concorrenza del Tap, il gasdotto dall’Azerbaigian bloccato per ora dai comitati locali pugliesi.
Ma quali sono i numeri in gioco? Finora il gruppo petrolifero dovrebbe avere messo sul piatto una cifra intorno a 200-250 milioni di euro. Con l’avvio dei lavori, però, il peso finanziario è destinato a salire: secondo le ultime indiscrezioni di fonte moscovita il costo dell’intero progetto sarebbe cresciuto a 23,5 miliardi, di cui 14 miliardi per la sezione offshore. Il che significherebbe, per l’Eni, un impegno di 2,8 miliardi di euro (20%) se Gazprom non riuscisse — a causa dell’embargo finanziario — a mettere in piedi un consorzio bancario.
È vero che la Saipem, controllata dell’Eni (ma in corso di dismissione e anch’essa non più «strategica») ha messo in carniere contratti per 2,4 miliardi. Resta che all’interno del board del Cane a sei zampe c’è chi pensa che quei 2,8 miliardi «teorici» potrebbero trovare un impiego più profittevole. Un punto di vista che si basa su una possibilità concreta: l’Eni ha in tasca il diritto di lasciare l’azionariato di South Stream Transport senza colpo ferire.
Nel 2012, infatti, il gruppo petrolifero aveva subordinato il «sì» all’avvio del progetto a due condizioni precise: che si finanziasse da solo senza richiedere garanzie dei soci e che fosse in regola con la normativa Ue che prevede che chi produce gas (Gazprom) non possa anche trasportarlo. Il cosiddetto «third party package». Nessuna si sta verificando e se altri azionisti di minoranza di South Stream (ad esempio i francesi di Edf) decidessero di fare ricorso a una delle clausole potrebbero automaticamente esercitare una «put», cioè un diritto di vendita al socio russo.
Ma Gazprom, e l’inquilino del Cremlino, che reazione avrebbero? Meglio lasciare passare l’inverno. E magari limitarsi a scendere al 10% del gasdotto della discordia senza scontentare nessuno.
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