Gabriele Barberis per il Giornale
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E l'autografo? Chi chiede ormai più un autografo a un cantante, a un divo, a uno sportivo, a un ministro, poi.
Nella campagna elettorale più importante dell'Italia gialloverde, l'anno I dell'era Lega-M5s, i big fanno propaganda soprattutto con il telefonino. Non tanto il loro, quanto quello di chi partecipa o si imbatte in un comizio.
È un fenomeno sociale e mediatico da studiare una performance di piazza di Salvini, il Capitano che ha saputo oscurare persino gli alleati grillini sul campo della politica virtuale. Per arrivare a comprendere come un suo monologo serrato di 25 minuti (sabato sera, piazza Carlo Alberto, Torino) si riduca alla fine in un intermezzo in carne e ossa tra una sequela di post e il nuovo rito del selfie di cittadinanza, garantito a tutti, nessuno escluso.
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Anche Matteo, appassionato milanista, avrà rincorso da ragazzino qualche calciatore per strappargli un autografo. E magari avrà ottenuto un prezioso sghiribizzo su qualche pezzo di carta da conservare in casa e soprattutto evocare negli anni con gli amici. Ma oggi quello che conta è la foto, il selfie, tu e il campione, tu e il politico, il «jolly» da spendere subito sui social. Per dare un segno di centralità mediatica, di vicinanza effimera al potere, insomma l'autoproclamazione iconica della capacità di farsi trovare pronti nel momento giusto.
Salvini è imbattibile nell'assecondare un pubblico informe, nordista e meridionale, positivo e incazzato, pronto a riversare gli osanna senza soste da un leader all'altro. Quando Matteo divenne segretario di una Lega squassata da faide interne e problemi giudiziari, i sondaggi davano il Carroccio al 2-3%. Difficile che quegli italiani che ora si riversano in piazza ad ascoltarlo fossero tutti leghisti della prima ora, mai tentati da Berlusconi e Renzi, per citare due leader dal largo consenso popolare.
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Ma tutto è più chiaro al termine di un comizio di Salvini, sempre sorridente, scanzonato, impavido in maniche di camicia mentre spuntano giubbotti e piumini contro i brividi di freddo. Le sue parole, molto efficaci ma mai memorabili, si stemperano rapidamente nell'attesa del premio finale che vale la serata per i presenti: il selfie con il vicepremier. Ha dell'incredibile la sua pazienza nel concedere la foto ricordo a tutti. Se sei anziano, piccolo o emozionato ci pensa lui: ti prende il cellulare con le sue manone e ti rilascia un'immagine perfetta.
Resiste impassibile alla fiumana inesauribile sul palco di avventori in coda, seguiti con occhio ansioso dalle forze dell'ordine e disciplinati dallo speaker («non spingete, non fatevi male, non andrà via finché ci sarete voi»). È l'umanità che guarda più lo schermo del proprio smartphone anziché gli occhi del politico del momento, è lo schema di questa Italia indecifrabile. Tanti militanti, tanti elettori, ma anche ragazzini, passanti incuriositi, persino turisti di passaggio nel lungo ponte pasquale.
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Alle undici di sera nessuno è così impegnato per non mettersi in coda e poi fare schiattare dall'invidia familiari e amici con un selfie scattato da una celebrità, come se fosse un tuo compagno di viaggio. Quanti voti porta un clic sul cellulare di un estraneo? Tanti? Pochi? Intanto tra un like e una diretta Facebook, il vecchio comizio diventa un reality e il selfie un atto politico che vale una proposta di legge.
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