DAGOREPORT – UN "BISCIONE", TANTE SERPI! GLI AVVERSARI DI BIANCA BERLINGUER A MEDIASET LAVORANO PER…
Fabio Tonacci per “la Repubblica”
Quanti, Karim? «Non lo so... non me lo chieda». È l’unica domanda che lo mette a disagio, l’unica che gli fa abbassare, solo un attimo, gli occhi. Certo che ha ucciso, con quel kalashnikov che i suoi compagni curdi dello Ypg gli hanno messo in mano quattro giorni dopo l’arrivo in Siria. È la guerra, funziona così. Dipende solo verso chi punti il fucile.
«Se non avessimo sparato, l’Is si sarebbe preso i civili, le donne, i bambini... li avrebbe costretti alla barbarie», dice Karim Franceschi, ora che è tornato nella sua Senigallia, ora che attorno a sé ha di nuovo i ragazzi del centro autogestito Arvultura e racconta loro dei tre mesi passati a Kobane, «sempre con le stesse scarpe ai piedi, per liberarla dai miliziani del Califfato».
Ha 26 anni, il fisico di chi ha fatto molto pugilato, la faccia pulita. Nella sua precedente vita, dopo il liceo classico, è stato pure agente immobiliare. Ora è un reduce. Ti parla di confederalismo democratico, della paura «che ci deve essere altrimenti non c’è coraggio», della bomba a mano che teneva in tasca nel caso fosse stato catturato dall’Isis. In famiglia ognuno ha la sua guerra. Suo padre Primo settant’anni fa combatteva sulle montagne toscane con i partigiani della formazione “Marcello”. E Marcello è il nome di battaglia che si è dato Karim. «Anch’io, in un certo modo, mi sento un partigiano».
È per questo che ha deciso di arruolarsi con i curdi?
«Anche. Mio padre è morto a 74 anni, quando ne avevo 12. Sono andato in Siria per provare quello che ha provato lui quando lottava contro nazisti e fascisti. A novembre avevo partecipato al progetto di solidarietà dei centri sociali “Rojava calling”, e in un campo profughi a Soruc ho conosciuto due bambini soldato... feriti, la guerra negli occhi, non ricordavano nemmeno chi fossero i genitori. Se combattono loro che sono ragazzini, ho pensato, perché non io che sono adulto? Chiunque ami la democrazia non può far finta di niente».
Come è arrivato a Kobane?
«Passando dalla Turchia. Era l’inizio di gennaio, con me avevo uno zaino con un po’ di vestiti, il visto e il telefonino. Ho attraversato il confine a Soruc, scavalcando a piedi il filo spinato. Dall’altra parte c’erano i curdi dell’Ypg, le truppe volontarie di difesa. Prima mi hanno interrogato perché temevano fossi un infiltrato. Poi gli ho consegnato il cellulare e ho iniziato l’addestramento».
Che consiste in cosa?
«Mi facevano correre, stando attento alle mine. Poi mi hanno dato il kalashnikov e mi hanno insegnato a usarlo. Dopo quattro giorni mi hanno mandato al fronte perché uno dei nostri era stato ferito».
Come eravate organizzati?
«Non ci sono capi, non ci sono gradi, non c’è un comando centrale. Sono i veterani a decidere cosa fare. Ogni gruppo di sei ha un caposquadra. Il mio era giovanissimo, si è dato il nome di una montagna: Zagros. Ognuno ha un nome di battaglia: Fiamma, Leone, Pioggia. Premettiamo sempre il termine curdo Haval, che significa compagno. Io ero Marcello. Ma non riuscivano a pronunciarlo, dicevano “Marselo”».
Ci sono altri italiani?
«No, sono l’unico. Ci sono inglesi, americani e tedeschi. Per un periodo ho combattuto insieme a un ragazzo di Israele. Ne ho visti morire tanti, purtroppo. L’ultimo una settimana fa: Heredem, il combattente più grande di Kobane. È stato il mio mentore».
Degli stranieri che si arruolano con l’Is cosa pensa?
«Non li capisco. Purtroppo ce ne sono tantissimi»
Quando ha sparato la prima volta?
«La prima notte di guardia. Stavo lì con il fucile in mano, non vedevo niente, cercavo le ombre nel buio. Non riuscivo a pensare a niente».
Le tremavano le mani?
«No, mai. Se tremano, non puoi colpire. Ho visto tre ombre avvicinarsi, hanno attaccato e ho fatto fuoco. Il mio compagno di appostamento ha acceso il visore notturno e ha visto due uomini che stavano trascinando via il terzo».
Come si è sentito?
«Che vuole che dica? Non è bello sparare a un altro essere umano».
Il resto della giornata cosa facevate?
«Stavamo nascosti nelle case semidistrutte. Non potevamo nemmeno alzare la testa, c’erano i cecchini ceceni. Quando calava la notte, uscivamo per il turno di guardia che durava sei ore. In tre mesi da Kobane siamo arrivati fino all’Eufrate. Poi sono stato spedito sul fronte opposto, a Tall Abyad».
Pensava alla morte?
«Non credevo che sarei mai tornato vivo. Una volta mi sono ritrovato da solo in una casa, circondato dai nemici. Lì ho detto: è finita. Invece sono riuscito a metterli in fuga, a forza di fucilate».
Come si fa a non impazzire?
«Qualcuno dei nostri lo vedevo pregare, in silenzio, con il rosario in mano. Io non ho mai pregato. Ci aiutavamo l’un l’altro, con piccole gentilezze: preparare la colazione per tutti, lavare le stoviglie degli altri. Mi è capitato di mangiare per due settimane di fila fagioli freddi in scatola, ma ogni tanto arrivava anche della Nutella».
Avete catturato prigionieri?
«Sì, li portavamo a Kobane e li sottoponevamo a un processo. Non ho mai visto giustiziare nessuno. I curdi non sono come l’Is. Hanno rispetto. Quello che fanno ai prigionieri le truppe del Califfato, invece, fa orrore. A ognuno di noi era stata data una bomba a mano nel caso venissimo catturati... meglio morti che in mano di quei pazzi».
Teme ritorsioni adesso che è tornato in Italia?
«Non ho paura».
Dimostrazione di donne curde a Sanliurfa, vicino alla citta? siriana di Kobane
Tre mesi a Kobane cosa le hanno lasciato?
«Il significato delle determinazione e coraggio. Ho visto donne piccolissime e gracili combattere come leoni, e per questo venivano seguite dagli uomini. Non importa quanto sei grande e forte, conta il cuore».
Ritornerà in Siria?
«No, non credo. Ho fatto la mia parte».
kobane assediata dall'isis 9kobane assediata dall'isis 5
Si senti un esempio per gli altri ragazzi della sua età?
kobane assediata dall'isis 4kobane assediata dall'isis 6
«Un esempio io? No, non sono nessuno».
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