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Michiko Kakutani per “New York Times”
Le famigerate foto delle torture nella prigione irachena di Abu Ghraib furono la prova che non si trattava dell’operato di poche mele marce ma di un problema sistematico: i militari perpetravano numerosi abusi criminali, sadici, sfacciati e gratuiti. Erano scaturiti da decisioni degli apicali della amministrazione Bush, che aveva sollevato gli Stati Uniti dal compito di rispettare la Convenzione di Ginevra, in pratica legalizzando la tortura.
Una importante prospettiva personale la offre “Consequence”, il libro appena pubblicato
da Henry Holt e scritto da Eric Fair, il quale condusse gli interrogatori ad Abu Ghraib, contractor ingaggiato dalla CACI che partecipò e fu testimone di abusi fisici, uso della privazione del sonno e della “sedia palestinese” (mostruosa macchina che costringe il prigioniero ad assumere una posizione atroce), vide uomini nudi e ammanettati, privati di qualsiasi dignità.
ericfair inquisitore ad abu graib
Lui e i suoi colleghi inflissero dolore in ogni modo possibile. Scrive Fair: “Le attività ritratte nelle foto mi sono familiari. Non ne sono scioccato. A scioccarci sono stati gli uomini dietro ai microfoni che parlavano di “mele marce”». Già nel 2007 aveva detto: «Noi abbiamo torturato nel modo giusto, seguendo le procedure e utilizzando tecniche approvate».
Continua: «Non presi parte alle torture più atroci ma non fa differenza. Non erano quelli i valori con cui sono cresciuto. Sentivo la pressione di eseguire gli ordini ma mi giustifica. Ho fatto errori terribili. Il tema della prigione era la nudità. I detenuti era tutti spogliati e faceva molto freddo. Distruggevamo gli iracheni e non solo fisicamente, ma emotivamente. Essenzialmente, era come nuotare in una piscina di depravazione».
Al rientro dall’Iraq, Fair soffre di insonnia, ha incubi frequenti, vede sangue ovunque, che si muove verso i suoi piedi come fosse vivo. Ha problemi al cuore, comincia a bere, il suo matrimonio va in malora. Nel libro parla della CACI come di «una entità non professionale e disorganizzata, pericolosa e irresponsabile: niente armi, nessun mezzo di comunicazione, né mappe né attrezzature di pronto soccorso.
Pochissimi interrogatori, quindi molti detenuti non sarebbero mai stati processati. I detenuti non erano al corrente del proprio status, non sapevano se avrebbero rivisto le loro famiglie. Alcuni erano colpevoli, altri non lo erano. Tutti però erano imprigionati in circostanze intollerabili». L’intelligence disse alla Croce Rossa che tra il 70% e il 90% dei detenuti era stato preso per sbaglio.
consequenze ovvero memorie di abu graib
Fair scrive che lui e i colleghi erano incoraggiati dai supervisori ad essere “creativi”, per spillare più informazioni. Non capivano bene i dialetti e giustificavano la tortura per riempire la documentazione. Fair voleva fermarsi ma non sembrare uno che non fa il suo dovere in guerra. Solo al suo ritorno ha pensato fosse il caso di tornare ad essere un essere umano. Pensa non ci sia redenzione ma si sente “obbligato a provare”: «Sento ancora le voci, le grida, i singhiozzi e il suono delle teste spaccate al muro. E’ impossibile farle stare zitte».
Abu GraibAbu Graibwb13 sofia d aburgo windish graetzAbu Graib
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