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Davide Frattini per il “Corriere della Sera”
«Con precisione quasi maniacale il militare dettagliava tutti i poveri averi che avrebbe saccheggiato a quella vecchina indifesa: una scatola di caffè, due candele, una manciata di farina. Era l'unica della nostra famiglia ad aver intuito il futuro: prima di salire sul treno indossò l' abito dei funerali. E infatti fu selezionata al suo arrivo ad Auschwitz». Un paio di anni fa Elie Wiesel aveva potuto visionare il documento originale redatto dall' ufficiale ungherese che aveva organizzato l' irruzione in casa di sua nonna prima della deportazione.
La stessa burocrazia macabra che avrebbe ritrovato ad Auschwitz, il primo incontro con la morte dello scrittore, scomparso ieri a 87 anni, che non ha mai smesso di lottare perché la memoria sopravvivesse. Da sopravvissuto: ai lager nazisti e ormai anziano ai cinque bypass per sostenere il cuore. «Non ho paura della morte - aveva detto in un' intervista ad Alessandra Farkas pubblicata dal "Corriere della Sera" dopo l' intervento chirurgico - temo però che, quando i testimoni saranno tutti scomparsi, i negazionisti avranno la meglio».
I negazionisti come quello che l' aveva assalito nel 2007, per annichilire il corpo, se le idee che Wiesel continuava a diffondere non si potevano fermare. Fin dal 1958, quando aveva deciso di pubblicare La notte . Aveva aspettato oltre un decennio per scrivere i suoi ricordi dell' orrore, ci era riuscito dopo un incontro con il romanziere francese François Mauriac, Nobel per la letteratura. Che l' aveva convinto: la prima versione era lunga ottocento pagine, scritta in yiddish con il titolo E il mondo rimase in silenzio .
Quella pubblicata in Francia e poi negli Stati Uniti era molto più breve e all' inizio vendette in America solo duemila copie, sarebbero diventate sei milioni, tradotte in trenta lingue, e sarebbe stata la prima parte di una trilogia: La notte seguita da L' alba e Il giorno . Come la vita che va avanti: nel caso di Wiesel spesa perché le nuove generazioni sapessero della Shoah.
Un impegno che nel 1986 gli era stato riconosciuto con il Nobel per la pace, il premio assegnato a «un messaggero per l'umanità», alla sua idea «di dignità ed espiazione». O come lo ricorda Benjamin Netanyahu: «Ha dato espressione alla vittoria dello spirito umano sulla crudeltà e il diavolo, attraverso la sua straordinaria personalità e i suoi affascinanti libri». Il primo ministro israeliano, come il suo predecessore, aveva pensato di farne il presidente dello Stato, di chiedergli di onorare la carica che in quel Paese è solo onorifica.
Era già successo con Albert Eistein, che aveva declinato la proposta come Wiesel. Anche lui non era cittadino israeliano, rispetto allo scienziato che elaborò la teoria della relatività almeno conosceva l'ebraico. Dopo la guerra si era trasferito a Parigi e aveva lavorato come corrispondente per il quotidiano israeliano «Yedioth Ahronoth».
Dalla Francia era approdato negli Stati Uniti, dove aveva anche insegnato all' università (l' ultima quella di Boston) e dove Hillary Clinton gli aveva appuntato la medaglia Theodor Herzl, l' ideologo del sionismo, del Congresso ebraico mondiale. Allora aveva dimostrato la capacità di ridere nella tragedia: «Nell' Europa di quell' epoca vivevano due gradi uomini, Theodor Herzl e Sigmund Freud. Per fortuna non si sono mai incontrati: pensate se Herzl avesse bussato alla porta di Sigmund per dirgli: "Ho un sogno"; e quello gli rispondeva: "Siediti, parlami di tua madre"».
Un decina di anni fa La notte era stato ripubblicato negli Stati Uniti e Wiesel aveva accompagnato Oprah Winfrey in un viaggio ad Auschwitz perché sapeva che attraverso la televisione e la popolarità della conduttrice il suo messaggio sarebbe passato. «Nessun' altra tragedia della storia è stata documentata più dell' Olocausto, con decine di migliaia di testimonianze scritte e orali. Un giorno spetterà a chi ha ascoltato la testimonianza di sopravvissuti come me diventare a sua volta testimone».
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