UN EATALY PAPALE PAPALE - IL VATICANO APRE LE FATTORIE DI CASTEL GANDOLFO: DEGUSTAZIONI CON LE STESSE PRELIBATEZZE CHE MANGIA IL PAPA - IL “SUCCULENTO” UOVO VATICANO

Michele Masneri per “il Foglio”

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In epoche di temperie gastronomiche e ortofrutticole, tutti i vari Eataly e mercatini bio rischiano di trovarsi di fronte a un temibile concorrente. Aprono infatti al pubblico, e a pubbliche degustazioni, le Fattorie pontificie.

 

A Castel Gandolfo, da quattro secoli residenza estiva dei Pontefici, ecco dunque la ventata democratica di Papa Francesco, che da qualche mese ha previsto la progressiva apertura delle storiche ville di delizie tra cui questa villa Barberini che racchiude non solo splendidi parterre all’italiana, ma anche polli, mucche, insalate, patate, e api.

 

Il genius loci del resto qui è agricolo e bucolico: le api ci sono in effigie, scolpite nei cornicioni, e sono naturalmente poi quelle dello stemma Barberini, perché la leggenda araldica narra che la dinastia non ancora principesca si chiamasse Tafani, da Barberino del Mugello, per via di certi mosconi attorno a parti non nobili del bestiame che era il core business della famiglia; dunque, origini bovine poi nobilitate, e cambio della ragione sociale in “Barberini”, appunto, e l’insetto stercorario sostituito con quello signorile e operoso.

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E fu proprio un Barberini a fondare questa residenza estiva, Urbano VIII, Papa amante delle arti, che fece sistemare al Maderno il palazzo proprio di Castel Gandolfo, ma Papa anche iniziatore del nuovo corso della famiglia. E Papa imprenditore agricolo: nel 1623 Urbano VIII requisì infatti questo villone non a caso di stile rinascimental-toscano ai Sabelli, e lo collegò alla residenza di Castello e all’altra villa Cybo, in un percorso di delizie estive che da quattrocento anni allieta i pontefici col microclima dei Castelli. Le ville rimasero chiuse solo nel periodo 1870-1929, dalla breccia di porta Pia ai Patti lateranensi, ma già dal 1929, ecco un nuovo splendore per queste residenze, e grandi acquisti immobiliari da parte di Pio XI, che volle soprattutto potenziarne gli usi agricoli. E siccome si era nell’epoca dell’anarchia e delle battaglie del grano, il romano Pontefice aveva in testa tutta un’autosufficienza molto a chilometri zero.

 

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Dunque ecco questa cascinona di cinquantacinque ettari, di cui almeno trenta coltivati a insalata, pomodori, erba medica per il bestiame. Dagli anni trenta, spiega al Foglio il direttore delle ville, dottor Osvaldo Gianoli, la Fattoria serve soprattutto a produrre ciò che finisce sulla tavola del Pontefice, il resto è acquistabile solo dai dipendenti vaticani, e al grande supermercato dell’Annona, nella Santa Sede. Adesso però qualcosa potrebbe cambiare.

 

Già queste degustazioni ai visitatori e pellegrini. Ma un giorno Papa Francesco, che ha voluto l’apertura delle ville al pubblico, potrebbe forse pensare a un possibile utilizzo commerciale di questi prodotti, si immagina, anche perché il mantenimento dei cinquantacinque dipendenti costa, e forse fare cassa con squisiti prodotti tipo “Natura Sì”, ma con in più il marchio vaticano potrebbe essere un clamoroso successo commerciale (non che questo sia un progetto ufficiale, né ufficioso, per carità, il nostro ospite parla solo di “ottimizzazione dei costi”, e però noi già si sogna una linea tipo Eataly by Vaticano con le sacre insegne, si pensa già al successo di store monotematici, magari anche a una linea vegana-vaticana. Che brand).

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Ma si parte col tour, lasciamo le apette dei Barberini, passiamo in un grande vestibolo, dove bacheche avvertono delle Sante Messe e della “vendita, venerdì 24 aprile, della carne di vitella”.

 

Scendiamo nell’orto: bisogna oltrepassare i magnifici giardini d’ombra e quelli di luce: parterre di bosso e lecci perfettamente tenuti da tagliaerba rossi marca Toro targati però SCV, e i resti della villa romana dell’imperatore Diocleziano su cui fu edificata la villa Barberini, con un teatrino di delizie e le sue locandine d’epoca in terracotta che annunciavano spettacoli, e un teatro più grande per eventi più pubblici, e insomma forse una Villa Certosa (absit iniuria verbis) d’alta epoca.

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Per arrivare alla fattoria vera e propria bisogna oltrepassare, poi, in discesa, il grande ulivo dono di re Hussein di Giordania a Papa Paolo VI, e i peschi giapponesi, e il giardino della Magnolia con il grande albero al centro con le siepi che imitano le aquile dello stemma di Pio XI, e poi ancora il grande stemma invece del Papa in carica, tutto in bosso, con il motto “miserando atque eligendo”, dal Vangelo di Matteo, scolpito in micro-siepi e cespuglietti.

 

Scendendo ancora, ecco l’eliporto in mezzo all’erba medica, ecco le lucine per celebri atterraggi; qui, un senso di nostalgia: una delle ultime volte che è stato usato, per quella trasvolata del febbraio 2013 dopo l’abdicazione di Benedetto, ormai Papa emerito, che volò con il grande Agusta dell’Aeronautica, alzandosi in cielo dal Vaticano, prendendo l’ansa del Tevere nell’ora del tramonto, virando verso i Castelli, e posandosi infine qui.

 

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Poi, dopo, l’eliporto non è stato quasi più usato, e Papa Francesco non facendo vacanza qui non viene mai; e forse il Papa emerito Benedetto non volendo sfigurare non ci viene più manco lui. Il risultato è: piazze piene, eliporto vuoto. Anche se la residenza è sempre pronta, e anche se il direttore dice diplomaticamente che le Ville nella storia hanno goduto di diversi gradimenti presso i sommi pontefici (“di trentadue Papi dal Seicento ad oggi, sedici sono venuti, sedici no”), l’eliporto petrino, perfettamente tenuto come tutto il resto, evoca lontane epoche di aviotrasporti frequenti; antichi dipendenti ricordano che Giovanni Paolo II (che qui è presente, in absentia, in ritratti, foto, ricordi dei dipendenti) atterrava ogni sabato.

RENZI REGALA VINO AL PAPARENZI REGALA VINO AL PAPA

 

Non proprio come col velocissimo “bus-cottero” invenzione letteraria futuribile di Guido Morselli nel fondamentale “Roma senza papa” (Adelphi, 1974), in cui il pontefice abbandonava la capitale per trasferirsi a Zagarolo inaugurando nuovi mezzi di trasporto; però con uso gioioso del rotore; e qualcuno ricorda che proprio sull’elicottero Giovanni Paolo faceva salire volentieri per giocare i figli ragazzini dei dipendenti vaticani, in questa piazzola.

 

E non distante di qui, si teneva la mitica riffa sempre per i figli degli agricoltori, coi doni ricevuti da emissari e sovrani poi ridistribuiti democraticamente (biciclette, tappeti persiani, maglie della Roma con firme dei giocatori). Chissà dove sarà poi la famosa piscina dove Giovanni Paolo, sempre lui, venne immortalato causando scandali in tempi di impreparazione per pontefici sportivi.

 

Qui, invece, oggi, pur nell’apertura democratica ai visitatori, si sente un’assenza. Non proprio “questo a noi ci ha piantati!” come sempre nel romanzo di Morselli, però ecco giù alla fattoria due addetti pontifici a preparare magnifici centrotavola con forsythie appena colte dai sacri giardini, per tavolate deserte. Ma la fattoria: ecco che si vede, sempre dall’eliporto, in mezzo all’erba medica dove pascolano le mucche di razza frisona che producono il latte per la colazione pontificale (un camioncino parte ogni mattina all’alba alla volta della Santa Sede).

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Sarà suggestione ma queste muccone bianche e nere pascolano con una placidità davvero notevole. Sono ottanta capi, “la frisona è una razza particolarmente placida” dice appunto la nostra guida, e adesso le seguiamo verso una stalla in quello che è il fulcro della Fattoria: un caseggiato rosso tipo villaggio antico di contadini feudali: ci sono fattori figli e nipoti di fattori, e siccome sono le cinque del pomeriggio, ecco sei di queste frisone che procedono alla mungitura. “Sono così abituate che ormai arrivano da sole”, dice il direttore, dalla vicina stalla.

 

INCONTRO TRA BENEDETTO XVI E PAPA FRANCESCO A CASTELGANDOLFO INCONTRO TRA BENEDETTO XVI E PAPA FRANCESCO A CASTELGANDOLFO

Un addetto papale prepara la mungitrice elettrica mentre loro felici sgranocchiano e rimasticano un po’ di papale paglia, e un po’ del loro bolo, placide come quelle nella famosa mungitura nella “Macchia umana” di Philip Roth, ferme, tranquille, forse godendo addirittura del contatto con l’elettrico strumento che le munge (ma sempre castamente, son pur sempre frisone pontificie).

 

Il bianco liquido arriva per dei tubi in una stanza accanto tutta piastrellata, in un grande tino d’acciaio e di qui prosegue per molteplici usi: verso un inscatolatore, che produce tetrapak deliziosi bianchi con la scritta gialla (i colori vaticani) “Latte fresco, Fattorie pontificie”, e il prezioso liquido fa un giro vorticoso per una serpentina che prima lo riscalda a settanta gradi, poi ne abbatte velocemente la temperatura, ed ecco la papale pastorizzazione per le versioni parzialmente e totalmente scremato (e il tino, prima della serpentina, ribolle del liquido appena munto, con densità vischiosa di materia vivente).

 

E poi ecco la zangola, per panetti di burro, ed ecco il macchinario per far la mozzarella, e le ceste per le ricotte, e le caciotte, che ci vengono fatte assaggiare. Assaggiamo anche, aperto un gigantesco frigo, un pontificio yogurt, nella versione alla fragola, “privo di qualunque additivo”, tiene a precisare il dottor Gianoli. Che dona al cronista anche un pacco di uova da sei, e il cronista vacilla nella sua laicità pensando al frittatone mistico che si farà con le medesime uova di Papa Bergoglio; l’uovo vaticano si rivelerà poi succulento, di un giallo mai visto, non si avrà cuore di sbatterlo, si mangerà in camicia.

 

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Del resto le galline, di razza appunto ovaiola, in quantità di cinquecento, allevate naturalmente a terra, sono nutrite con erbaggi freschi e mangimi di primissima qualità, e non si sa poi se sia vera la deliziosa leggenda secondo cui al normale mangime vengono aggiunti gli scarti delle ostie fatte a mano dalle sante monache benedettine.

 

Accanto alla sala mungitura, ecco poi trattori e ruspette, tutti targati SCV ed extraterritoriali, accanto a un grande scatolone con scritto “alla cortese att.ne S. Padre Francesco. Contiene Ulivo. Mittente, la parrocchia di San Giuseppe Sposo di Carapelle (Foggia)”, in attesa di interramento.

 

Di ulivi ce ne son già tanti, milletrecento, e producono un ottimo olio. E poi ecco le api, e poi finalmente si va all’orto, salendo verso questi terreni terrazzati e appena fresati di fresco con una motozappa modernissima. “L’ortolano Angelo l’ha appena passata”, dice la nostra guida, e spaventapasseri anche molto alti e arcaici tengono lontani uccellacci predatori. Ci sono poi filari ordinati di scarola, poi verze, finocchi, patate. Molte siepi di salvia e rosmarino per papali arrosti succulenti, fatti coi sessanta polli qui certamente felici.

 

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Poi altri ortaggi appena piantati, e “qui avevamo seminato i semi di Obama” dice infine Gianoli. In occasione della prima visita in Vaticano del marzo 2009, infatti, il presidente ecologista portò da parte della first lady una serie di preziosi semi vegetali, che prontamente sono stati messi a dimora.

 

Alla rivista “Il Mio Papa” qualche tempo fa il capo fattore specificò che trattavasi di “piante che non avevamo mai visto, zucchine gialle molto saporite, prezzemolo gigante, spinaci anch’essi giganti, una varietà particolare di cetriolo e l’okra, una specie di peperone verde e liscio che, però, non aveva un sapore particolarmente buono”.

 

E si precisò che questi ortaggi esotici non sono mai finiti sulla papale Tavola (non per scarsa considerazione per il presidenziale Orto Biologico, naturalmente, ci mancherebbe. Però non furono mai mangiati). Anche il dottor Gianoli, interrogato sulla qualità dei presidenziali ortaggi, diplomaticamente non si esprime. Intanto sono stati estirpati e sostituiti da una scarola autoctona. Le pontificie fattorie, a differenza del famoso orto della Casa Bianca, sono peraltro molto laiche sulla questione bio.

 

“Sono prodotti certamente naturali” dice Gianoli, “non usiamo fertilizzanti chimici né prodotti per far crescere più velocemente gli ortaggi, però tecnicamente non si possono definire biologici. Per esempio per concimare usiamo il letame delle nostre mucche, ma questo non sarebbe consentito dai protocolli biologici. E se c’è da dare il ramato alle viti, o lo zolfo, lo diamo. Facciamo esattamente come si faceva negli anni Trenta, insomma, niente è cambiato; ecco perché parlerei più di agricoltura tradizionale che di biologico”.

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Non c’è spazio insomma nei Sacri Orti per la mistica della misticanza: e polli e galline sembrano apprezzare la gestione tradizionale, l’uovo in camicia è splendido, e le frisone pontificie sono lì a testimoniare la loro beatitudine non bio. Poi a un certo punto però muggiscono, interrotte da un rumore. Ma è solo un trattore che passa. Forse speravano che fosse un elicottero.