DAGOREPORT – MATTEO FA IL MATTO E GIORGIA INCATENA LA SANTANCHÈ ALLA POLTRONA: SALVINI, ASSOLTO AL…
Ai piedi del sacrario montato davanti alla curva B dello stadio San Paolo, i fedeli di Maradona portano di tutto, anche i pasticcini per Diego allineati per comporre una scritta: “AD10S”, con il numero 10, quello del capitano. E Carmine, arrivato da Pozzuoli, accende un lumino, ma ce ne sono già centinaia. “Dopo 60 anni di trasferte, sei tornato a giocare in casa”, si legge in uno dei tanti messaggi lasciati tra mazzi di fiori e rose rosse. Ora Napoli piange il suo santo, il suo dio vendicatore, con i suoi 115 gol e i due scudetti: “Grazie – si legge su un lungo drappo bianco e azzurro - per aver riscattato un popolo vessato dall’odio razziale. Hai portato la gloria di Napoli nel mondo. Eternamente grazie, leggenda”.
Mascherine anti-Covid nere e occhi lucidi in una città frastornata e senza più il suo dio terreno. Città in cui tante persone ancora non vogliono credere che Diego sia “volato in cielo”. Lungo Spaccanapoli ecco il bar Nilo, che dagli anni 80 custodisce in una teca una ciocca di capelli di Maradona. Come fosse il sangue di San Gennaro, che quando si scioglie nella sua ampolla l’infelice diventa felice e il popolo si sente miracolato. Lo stesso effetto religioso e taumaturgico qui lo facevano le magie del Pibe de Oro. Oltrepassata la soglia del locale si partecipa a una veglia funebre. Le persone entrano, baciano la foto e fanno il segno della croce davanti a quel che resta di un ricciolo nero poggiato sull’altare.
Bruno, il titolare del caffè, sta lì a guardare con gli occhi gonfi: “Sapete la verità? Diego viene prima di San Gennaro perché i miracoli di Maradona li abbiamo visti”. “Mi faresti un caffè?”, chiede un cliente. No, niente caffè. L’attività è chiusa causa Covid: “È un periodo triste e ora che non abbiamo più un mito in terra è ancora più triste”. Solo per oggi la saracinesca è alzata per permettere alla città di rendere omaggio a colui che viene considerato il Dio del calcio: “È un modo per stare insieme e ricordare”.
Da queste parti Maradona viene celebrato non solo come il campione del pallone. È qualcosa di più. È la divinità dei poveri a cui la città è legata con un cordone ombelicale: “Ci ha sempre difeso. È caduto alcune volte, ma non ha mai fatto male agli altri, anzi, ha solo fatto del bene”, dicono per strada, vicino piazza del Gesù. C’è Marco: “Non ci credo. È il mio super eroe, ora andrebbe tolto il numero 10 dalle maglie, non nascerà più un’altra leggenda come Diego”.
Camminando lungo queste strade si arriva nei quartieri Spagnoli ed ecco un altro tempio laico, dove negli anni ‘90 è stato disegnato un murales ad altezza naturale del numero 10. Qui Diego veniva a passeggiare di notte. Ora c’è una piccola cappella, dove i pellegrini baciano il loro santo mentre le strade si colorano di bandiere e sciarpe azzurre. Si avvicina Lino: “Sono juventino, ma non posso non inchinarmi a Maradona”.
C’è chi propone tre giorni di lutto nazionale: “Con tutto il rispetto per San Gennaro, ma per noi Maradona è storia”. Sul viadotto del rione sanità è stato attaccato un altro striscione: “Maradona per Napoli è come Cristo per Dio”. Ovvero il Messia. È così ovunque. Poco più avanti appare la foto del calciatore argentino con scritto “Dios”. Un tifoso prega lì di fronte: “Rappresentava Napoli, non il Napoli”. Univa una città profondamente divisa tra fortunati e meno fortunati. Ora i napoletani chiedono di dedicare a lui lo stadio San Paolo e in qualche modo lo hanno già fatto.
È stata portata una targa in metallo con il volto del numero 10 e con scritto: “Napoli. Stadio Diego Armando Maradona”. Da ieri, di fronte al tempio dove lui dava spettacolo, si radunano centinaia di tifosi, nonostante il divieto di assembramento e nonostante la Campania sia zona rossa. Ma oggi qui è come se le regole non valessero. Il governatore Vincenzo De Luca ha posato il lanciafiamme in tasca.
Il sindaco Luigi De Magistris lascia che questo lutto venga vissuto anche in una forma di festa. Con raduni e canti, lì dove i tifosi non possono entrare da marzo scorso e le partite si giocano a porte chiuse. Per l’occasione i cori da stadio sono tornati in città: “Maradona è meglio e’ Pelé”, il ritornello scritto ai tempi da Bruno Lanza. E poi ancora: “Siamo figli del Vesuvio, non ti lasceremo mai. Un Maradona c’è solo un Maradona”.
È una storia di simbiosi quella tra Diego e Napoli. Lui era angelo e demone, bipolare come Napoli di cui Benedetto Croce diceva, ben prima che arrivasse lo “scugnizzo” dall’Argentina: “È un Paradiso abitato da diavoli”. E come Napoli anche Maradona era creazione e autodistruzione, grande talento e grande dolore. Una città identica a lui anche nel senso di essere capace di far del male ma solo a se stessa. Gli somigliava anche per un altro aspetto: la teatralità. Ed è questa che i napoletani stanno mettendo in scena per ricordare il loro grande attore che esaltava le folle dentro e fuori dal campo di gioco.
La città sta vivendo così il suo lutto. Libri, quadri, immaginette simil-sacre, altarini in ogni dove. Il diluvio di religiosità popolare di queste ore è l’altra faccia, o forse la stessa, della carenza di riferimenti forti per una popolazione spaesata e spesso mal governata. “Noi napoletani non abbiamo mai avuto eroi”, dice ancora Bruno, il proprietario del Bar Nilo: “Ci hanno fatto credere che lo fosse Masaniello, ma quello si è venduto dopo pochi giorni.
Non come Diego che poteva andare ovunque e ha scelto di restare qui con noi”. Ora Napoli lo vede salire in cielo, ed è comparsa una raffigurazione da arte povera su un muro dei quartieri Spagnoli, che vorrebbe fare il verso a quei grandi dipinti del ’600 napoletano con gli apostoli che guardano l’ascensione del loro Cristo. Che stavolta è effigiato con un mantello azzurro e lo stemma del Napoli sul petto insieme allo scudetto. Diego ha rappresentato il meglio e il peggio di questa comunità alla ricerca di qualcuno in cui credere piazzandogli l’aureola sulla testa.
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