
JOHN KENNEDY E’ STATO IL PIÙ INFEDELE PUTTANIERE DEL XX SECOLO MA SUA MOGLIE JACQUELINE S’ATTACCAVA…
"ANCHE UNA BIRRA PUO' AVVICINARE A DIO" - L'INTERVISTA AI MONACI BENEDETTINI DI NORCIA CHE PRODUCONO UNA DELLE BIRRE PIÙ PREMIATE AL MONDO (LA "NURSIA")- L'ABATE DOM BENEDETTO NIVAKOFF: "DA GIOVANE BAZZICAVO WALL STREET, POI HO CAPITO CHE L'UMILTA' RIEMPIVA LA VITA" - LA PRODUZIONE DELLA BEVANDA ALCOLICA È GESTITA DA DOM AGOSTINO WILMETH: "L’INGREDIENTE SEGRETO? IL SILENZIO" - LA "MODERNITÀ" DELLA VITA DEI BENEDETTINI: "ORA SONO TUTTI A FARE LA DIETA INTERMITTENTE, MA NOI DA 15 SECOLI, PER REGOLA, DIGIUNIAMO NEI MESI CALDI SEMPRE UNA VOLTA AL GIORNO!"
Estratto dell’articolo di Carlo Cambi per “la Verità”
Sta risorgendo; con una lentezza quasi offensiva, eppure si muove e oggi il rosone - magnifico - della Basilica di San Benedetto si può ammirare di nuovo. Norcia, incastonata ai piedi dei Sibillini, si rialza a nove anni dal terremoto e mostra i prosciutti e i tartufi, i pecorini e i funghi. E la «sua» birra: la Nursia. […]
Ho la fortuna di bussare all’Abbazia di San Benedetto in Monte che si piglia cura di Norcia da un’altura appena a sud-ovest della cinta muraria, l’11 luglio: è il giorno di San Benedetto.
Sono salite centinaia di fedeli per la messa rigorosamente in latino, corroborata dall’universale melodia dei canti gregoriani, poi per la processione, infine per il concerto e alcuni hanno la buona sorte d’essere accolti alla tavola dei monaci che hanno - così impose Benedetto - l’ospitalità come primo dovere verso il mondo, così come hanno la contemplazione come primo dovere verso sé stessi e Dio.
Ho bussato e mi hanno aperto quella loro «casa» che a forza di braccia hanno risistemato. Quello era un convento cappuccino abbandonato e i ventidue monaci benedettini - età media 32 anni, metà vengono dal Nord America e basta a dire che qui è tutto contro convenzione, ma è solo convinzione di fede - lo hanno risistemato.
Il monastero in centro a Norcia è inagibile e forse lo resterà. Avevo fame e mi hanno accolto in un cenobio dove parola sacra e nutrimento concorrono al medesimo benessere, avevo sete e mi hanno offerto la Nursia.
Non è una birra qualsiasi: ha vinto tutto il vincibile. […] La fa un monaco alto, con una gran barba rossa, giovanissimo. Diresti che è irlandese e invece arriva dalla Carolina del Sud: Dom Agostino Wilmeth, mastro birraio. «Per passione e starei per dire vocazione», scherza, «facevo già la birra negli Stati Uniti, ho cominciato a 16 anni nello stesso momento in cui ho iniziato a diventare curioso dei monasteri e mi sono convertito al cattolicesimo.
A ispirarmi è stato il canto: a me piaceva il canto gregoriano, trovavo affascinante la solennità della liturgia, il latino, mi faceva star bene pensare al monastero come un luogo dove ritrovarmi, la Schola cantorm mi avvolgeva. All’università ho studiato arti liberali: musica, matematica, ma quella classica lontana dall’high tech, e poi arte, musica, così avvicinarmi a San Benedetto è stato naturale».
E la birra che c’entra?
«Oh, c’entra moltissimo! Se vuoi capire la vera birra non puoi prescindere dal lavoro che hanno fatto le abbazie trappiste, i cistercensi. Io ancora oggi guardo alla tecnica dei confratelli belgi come a una ispirazione. Ma la Nursia ha qualcosa di più e di diverso, non è solo un’ottima birra».
E che cos’è?
«Potrei dire che è la nostra scommessa vinta. Avevamo un negozio di prodotti religiosi, ma sentivamo che c’era bisogno di qualcosa che ci facesse esprimere e che ci desse anche un po’ di sostentamento. Nel 2012 i monaci avevano già iniziato a fare la birra nel nostro piccolo birrificio annesso al monastero in centro a Norcia.
C’era già la birra bionda fatta con malti italiani e con aromi nostri, ma io mi sono provato a fare la Triple - la rossa come la chiamano volgarmente - con la mia ricetta che avevo sperimentato da ragazzo in Usa e ispirandomi alle birre trappiste.
È venuta bene, e poi c’è anche la Extra, quella scura, che secondo me ha soffio mediterraneo in stile continentale europeo. Dopo il terremoto abbiamo trovato ospitalità da un altro birrificio e continuiamo a produrre le nostre birre usando tutti ingredienti italiani e soprattutto di Norcia».
C’è un ingrediente segreto? E c’è soddisfazione?
«L’ingrediente segreto è… il silenzio! Soddisfazione? Certo che c’è, ma non è quella che si può pensare: il premio, un po’ di notorietà. No, è la coscienza di avere fatto per bene qualcosa che fa bene».
Insomma la birra è una preghiera ed è l’ora et labora?
«La birra è un nostro prodotto che spero parli al mondo di noi, quanto all’ora et labora, nella regola di San Benedetto questa cosa qua proprio non c’è scritta. Noi coltiviamo l’orto, produciamo olio, facciamo la birra per il nostro sostentamento. L’abbiamo pensata Nursia perché è dedicata a Norcia, ma anche perché sono birre che vanno perfettamente d’accordo con gli straordinari prodotti di questo territorio:
per i tartufi con la Triple non c’è di meglio, i salumi e i pecorini con la binda sono perfetti, il cioccolato tartufato o i funghi con la Extra si esaltano. È una nostra opera, ma niente di più. La vocazione è quella della preghiera, è l’essere monaco ancora prima che sacerdote, anzi direi che io sono monaco e poi sacerdote per il servizio alla comunità».
S’avanza l’abate - da un anno questo luogo, dove si può venire anche ospiti in alcune casette per respirare la natura, per vivere in serenità, basta prenotarsi su www.nursia.org, è stato elevato a rango di abazia – che è anche lui «unconventional» come direbbe un americano.
Alto, barba folta, occhi di cielo, magro con un sorriso largo. «Che si aspettava, un monaco come quelli dei film?». No di certo, ma la curiosità è tanta, a vederlo sembra un manager in saio nero come vuole la regola di Benedetto e invece è il Reverendissimo Dom Benedetto Nivakoff, O.S.B. perché così va chiamato. «Diciamo che a modo mio lo sono stato. Sì, da giovanissimo bazzicavo Wall Street, lo stock exchange».
È lo switch, il cambio come è avvenuto?
«Beh quando senti che immaginare di avere una spider Alfa Romeo, una bella casa, tanta gente intorno non ti basta o non è quello che vuoi, ti fai domande e ti vai a cercare. Absit iniuria verbis: anche a San Benedetto è andata così. Lui veniva dalla Roma imperiale, famiglia agiata, poi è finito a cercarsi in una grotta.
Così sono partito per un viaggio in Inghilterra, poi senza dire niente a nessuno ho deciso di venire una settimana in Italia e in un appartamentino di Roma ho incontrato Dom Cassiano Folsom che dopo cena mi ha detto: ti dispiace lavare i piatti? Io mi sono sentito umiliato - a me, che vengo da New York, dici di lavare i piatti?
- ma l’ho fatto e ho capito che quell’umiltà riempiva il mio vuoto. Siamo rimasti in comunità a Roma, eravamo pochissimi, dal 1998 fino al 2000, poi saputo che a Norcia - la città dove San Benedetto è nato, ma non ha mai predicato - cercavano monaci, siamo arrivati.
E piano piano piano la comunità è cresciuta. C’è stata la birra nel 2012, la ricerca dell’identità con la città, poi il terremoto. Per quelli della mia generazione la guerra, il terremoto, la sfida di ricominciare, era tutto faticosamente nuovo. […]».
Ora lei è l’abate, è stato Dom Folsom a nominarla?
«Ma no! La comunità - come vuole la regola - è autonoma, fa le sue scelte. Dom Cassiano ha solo detto che era stanco. La nostra forza credo sia stata quella di dirci: possiamo coltivare il dubbio? Siamo uomini liberi: possiamo determinarci in un modo diverso? Ovviamente senza deviare dalla tradizione, dal credo cattolico, dall’insegnamento di San Benedetto.
Ma noi viviamo la nostra vocazione monacale che è quella vera, quella che ti spinge a fare questa scelta, come impegno di resa gloria a Dio. E come esaltazione della modernità della regola benedettina che da 15 secoli guida l’umanità».
Dove sta questa modernità?
«Una prova? Eccola: ora sono tutti a fare la dieta intermittente, ma noi per regola digiuniamo nei mesi caldi sempre una volta al giorno! Tutti ad occuparsi di giardinaggio, di piante di alimenti naturali! Noi mangiamo carne solo a Natale e a Pasqua. Da 15 secoli ci prendiamo cura del nostro orto, dei nostri campi e insegniamo a chi ci sta accanto come fare.
Anche la birra è nata così.
A noi piace e però quelle belghe costavano troppo e potevamo berle solo una volta alla settimana, eravamo poverissimi, ed ecco la nostra birra che si è fatta impresa e serve alla comunità. Se poi bevendola si accostano a noi, ai nostri valori che sono il rispetto della tradizione, la liturgia in latino, la regola da vivere attualizzandola ogni giorno, ne siamo felici.
Cominciano a radunarsi attorno a noi delle famiglie a cui spieghiamo che vivere come i monaci è fare sacrifici, ma è anche vero che sempre i benedettini hanno costituito delle comunità. Noi però non siamo una parrocchia, non ci prendiamo cura dei bisogni. […]».
E che però beve birra, e come diceva un vecchio spot: campa cent’anni?
«La birra nostra è una buona birra, che piace tanto anche ai monaci: si chiama Nursia perché vogliamo che sia rappresentativa della comunità: però non viene comunicato con la birra un messaggio spirituale. Certo se fa arrivare a noi le persone è un dono e poi le strade per arrivare a Dio sono infinite e anche una birra che si fa conoscere nel mondo può essere un punto di partenza.
Anche noi abbiamo un continuo rapporto tra il nutrimento del corpo nella mensa e la cura dell’anima. Finito di pregare avviandoci al refettorio facciamo una processione, finito il pasto si torna in chiesa cantando il miserere. Perché l’eternità è nella fede».
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