DAGOREPORT – AVVISATE IL GOVERNO MELONI: I GRANDI FONDI INTERNAZIONALI SONO SULLA SOGLIA PER USCIRE…
Niccolò Zancan per “La Stampa”
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Si erano dimenticati tutti degli operai. Ma sono qui, invece. Dopo lo striscione con sopra scritto: «Noi siamo quelli che per vivere dobbiamo lavorare». Alessandro Tapinassi, 57 anni, conduttore di macchine a controllo numerico: «Il nostro collante è la solidarietà. Noi restiamo insieme, mentre la società ti insegna la solitudine».
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Gianluca Armino, 47 anni, padre di Giulia e Tomas: «Per quindici anni ho fatto il turno di notte per arrivare a 1.700 euro al mese. Ma da quando mi hanno messo al magazzino prendo 1.400. Con mia moglie abbiamo ancora quindici anni di mutuo sulla casa».
Cucina da campo
Valerio Boldrini, 49 anni, alla produzione dei semiassi del Ducato: «Non sono mai stato un estremista. Ma il modo che hanno usato per licenziarci è inaccettabile. Ci hanno presi in giro».
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Luciano Morelli, 53 anni: «I proprietari della fabbrica sono scappati come dei ladri. Hanno liberato i loro uffici da un giorno all'altro. Pensano di prenderci per sfinimento, ma si sbagliano: sono proprio loro la nostra forza. Senza un accordo da qui non uscirà neanche un bullone».
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È un altro giorno di presidio permanente davanti alla Gkn. Certo, è il giorno migliore da tre mesi a questa parte, dopo la sentenza del tribunale di Firenze che ha revocato la procedura di licenziamento per i 422 dipendenti dichiarandoli illegittimi. L'umore è buono. Ma nulla è cambiato.
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Sono sempre divisi per turni, come al lavoro. Alla cucina da campo oggi è in servizio l'operaio Andrea Agostinelli: «Frittata, piselli, arista». C'è la Sambuca del collettivo operaio a 20 euro e il portachiavi «Insorgiamo» a 3. Stanno qui. Dove la fabbrica di semiassi ex Fiat, controllata dal fondo inglese Melrose Industries, produceva utili e dava da mangiare a tutti.
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E adesso tutti ricordano due cose, più delle altre. Quella mail che aveva come oggetto «Chiusura dello stabilimento e interruzione delle attività produttive», per poi attaccare con queste parole: «Caro collega, abbiamo ritenuto opportuno e corretto informarti direttamente della comunicazione che la nostra Società, con rammarico».
Nessun preavviso. Neanche un'avvisaglia. Avevano dato un giorno di vacanza. Serviva per poter chiudere la fabbrica e sbaraccare senza dipendenti fra i piedi. Ecco perché il secondo fatto che molti ricordano è il videomessaggio dell'amministratore delegato Andrea Ghezzi, spedito ai dipendenti per Natale 2020: «Cari colleghi, è stato un anno particolare e complicato, ma dal punto di vista aziendale possiamo ritenerci molto soddisfatti per aver saputo conciliare con successo diverse esigenze. La tutela della salute, le domande dei nostri clienti e la sostenibilità economica e finanziaria dell'azienda. Sarebbe stato difficile fare di meglio».
Polonia e Spagna
«Ti rendi conto?», domanda l'operaio Alessandro Tapinassi. «Qui si facevano utili, molti utili. Ma fare soldi con il lavoro non basta più. Vogliono chiudere per fare soldi con i soldi. Per una mera speculazione finanziaria. Intanto, hanno delocalizzato la produzione in Polonia e in Spagna».
All'ingresso dello stabilimento ci sono ancora gli ultimi pezzi prodotti per la Ferrari, alle 5.27 dell'ultimo turno di lavoro: era l'8 di luglio. «A nessuno di noi passava lontanamente per la testa che potessero mandarci via il giorno dopo».
Un giudice ha stabilito che il modo usato dai proprietari di Gkn è inaccettabile. Dopo la sentenza, la proprietà ha convocato il primo tavolo di concertazione, alle 17 di ieri, all'Hotel Londra di Firenze. Ma tutti i sindacati e la Rsu dell'azienda di Campi Bisenzio non si sono presentati.
«Non ci siamo andati perché non è il luogo adatto» dice Daniele Calosi, il segretario generale della Fiom di Firenze. «L'unico luogo deputato è la sede del ministero per lo sviluppo economico. Tocca al governo trovare un accordo per evitare i licenziamenti».
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Come ogni notte gli operai della Gkn vegliano sulla grande fabbrica spenta. Il sindaco di Campi Bisanzio, Emiliano Fossi, ha deviato il traffico dei camion per impedire il trasloco dei macchinari. Nessuno si fida più.
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La canzone che cantano al presidio dice: «Non c'è resa, non c'è rassegnazione, ma solo tanta rabbia che cresce dentro me». È la classe operaia del 2021. Neanche una parola sulla politica, ma questa politica fatta con i corpi: «Noi siamo insieme. La nostra vita è lavorare, il caffè freddo portato da casa, le feste per i nuovi figli. Siamo insieme da quando avevamo diciotto anni e adesso, che ne abbiamo cinquanta, siamo una famiglia. Noi restiamo qui». È buio. Il cancello della fabbrica si apre. «Ciao fratellino», dice l'operaio Alessandro Tapinassi. Arrivano quelli del turno di notte.
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