DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Greil Marcus per The New York Times pubblicato da la Repubblica
«Nessun americano vincerà più il Nobel» ha detto Philip Roth qualche anno fa, il giorno in cui era stato annunciato il premio per la letteratura: lui, insieme a Joyce Carol Oates, era dato favorito, almeno nel giro delle scommesse. Forse Roth non ha pensato a Bob Dylan, ma immagino che Don DeLillo — credevo quest’anno avrebbe vinto — probabilmente ci abbia pensato. Il protagonista del suo terzo romanzo,
Great Jones Street, del 1973, tale Bucky Wonderlick, è un musicista perseguitato da fan, imbroglioni, gangster e la musa di quel profeta, quel veggente, quell’impostore di se stesso era così palesemente ispirata a Bob Dylan che è straordinario che DeLillo sia stato in grado di fare di quel personaggio un suo personaggio. Eppure ci è riuscito. Se foste fan di Dylan, come DeLillo, alla fine del libro vi rimarrebbe da sperare che ne esca vivo non solo Buzzy Wonderlick, ma anche Bob Dylan.
«I’m a poet, I know it, hope I don’t blow it» (Sono un poeta, lo so, spero di non fare una figuraccia) cantava Dylan 52 anni fa in I Shall Be Free No. 10. Non ha fatto una figuraccia — le parole di Tempest, il suo album più recente di canzoni inedite, del 2012, erano tanto ambiziose in Early Roman Kings e in Long and Wasted Years quanto nessun’altra cosa si potesse ascoltare.
Ascoltare — ecco: a dare a ogni parola di quelle canzoni la loro pienezza era la sua esecuzione. Quando sul palco si esibiva in un pezzo nuovo, ci metteva tutto il corpo: le canzoni si dilatavano, sembrava che facessero esplodere gli edifici. In ogni caso, chiedersi se Dylan sia un poeta — sì, adesso National Public Radio lo paragona direttamente a Saffo, a Omero, ai grandi bardi che cantavano, che eseguivano la loro magia con le mani e i volti — non è mai stata una domanda interessante.
Dylan ha inviato al mondo le sue parole a bordo di grandi imbarcazioni con troppe dimensioni per poter essere ridotte a elementi separati: erano canzoni. Pensate a Highway 61 Revisited — con ogni verso che raggiunge una tonalità di tale forza che quello seguente deve spingersi oltre o spegnersi. Si tratta di una canzone del 1965 che Dylan ha eseguito la settimana scorsa al Desert Trip Festival di Indio in California.
È impossibile dire se siano state le parole a far sprizzare le scintille della musica; o se la musica, risuonando nella testa del cantautore o in studio di registrazione, abbia fatto sgorgare le parole; se una certa melodia sulla chitarra di Michael Bloomfield o la tastiera elettrica di Al Kooper abbia creato la sensazione di un elastico che ti colpisca in faccia per fargli scrivere “E allora la quinta figlia la dodicesima notte”; o se le parole siano scaturite dal fraseggio musicale che le ha fatte sembrare fuori dal tempo o dalle intenzioni.
O forse è dipeso dal modo col quale le parole uscivano dalla bocca di Dylan? O da come l’addetto alla registrazione ha fatto in modo da far sembrare che Dylan si trovasse all’interno del suo stesso microfono, così che quando i musicisti ascoltavano in playback una delle prime incisioni del brano riuscivano a sentire dove volesse andare quel brano?
La canzone probabilmente ha raggiunto il suo massimo picco quando è stata eseguita con la Band a Oakland, in California, nel 1974, quando un riff spezzato del chitarrista Robbie Robertson segnò l’attacco di Dylan della strofa finale — quella sulla prossima Guerra mondiale — in un tripudio di passione, di “Watch out!” (Attenzione!), che quella canzone non aveva mai avuto prima. Una volta ho chiesto a Robertson da dove fosse mai saltato fuori quel riff straordinario. Mi rispose che era scaturito dall’impeto del momento, quando pensava di aver perso la canzone: “Fu un attimo di panico”.
Le canzoni si muovono attraverso il tempo, alla ricerca della loro forma definitiva. Ciò che accade lungo quella strada dipende soltanto in parte dallo scrittore, dal cantante, dai musicisti. In parte può dipendere dal pubblico che ascolta le canzoni , e da come la reazione del pubblico viene recepita da chi la esegue e, con modalità che possono essere percepite ma mai determinate, ridà nuova forma alla canzone. Questo, forse, spiega anche perché le canzoni di Dylan si siano mosse nel tempo, e come abbiano fatto ad assorbirne determinati elementi mentre lo attraversavano.
Nel 1954 Vernon Green, cantante e cantautore di un gruppo doo-wop di Los Angeles che si chiamava Medallions, scrisse una canzone intitolata Buick 59. L’idea, spiegò molto dopo, era di post-datare la canzone così che fosse trasmessa dalla radio, facesse incassare più soldi, e desse al gruppo qualcosa da eseguire per gli anni a venire. Il trucco funzionò: il disco fu un successo nel 1954 e nel 1959 tornò a essere un successo locale.
BOB DYLAN LIKE A ROLLING STONE
Bob Dylan cantò per la prima volta Masters of War nel febbraio 1963. Era, almeno all’apparenza, una canzone sui mercanti di armi; l’idea, ha scritto Dylan nel suo libro del 2004 Chronicles, Volume 1 gli venne dal discorso di addio del presidente Dwight D. Eisenhower. La canzone è uscita dal repertorio dopo il 1965, ma dopo il Duemila è tornata alla ribalta con maggior potenza, specie in occasione delle elezioni negli Stati Uniti. Dylan l’ha cantata la notte in cui Barack Obama è stato eletto. In modo nostalgico, quasi elegiaco, non con quella furia che vi aveva messo dentro a Oshkosh in Winsconsin il 2 novembre 2004, quando John Kerry è stato sconfitto.
Non si tratta di una canzone raffinata. Le parole inseguono troppo metafore e similitudini. Si può quasi percepire la pressione di chi le ha scritte. Malgrado tutto la canzone mantiene la sua attualità, perché ha cambiato forma e perché, come per Buick 59 del 1954, chi l’ha scritta di sicuro cinque anni dopo si sarebbe trovato ancora su una nuova Buick; e la canzone non è rimasta senza guerre contro le quali scagliarsi. Dylan l’ha eseguita in un giro di musicisti che suonavano strumenti acustici. L’ha gettata alle folle come una granata.
La settimana scorsa, quando con questa canzone ha terminato la sua performance al Desert Trip, essa ha assunto una forma, una voce, un volto che forse non aveva mai assunto prima. Dylan l’ha cantata come se fosse la canzone di qualcun altro, come se fosse una poesia letta per la prima volta al liceo, o un’anonima ballata britannica di strada risalente a tre secoli fa, qualcosa che lui leggeva o ascoltava da tutta la vita, come se la sua forza si fosse rivelata appieno soltanto quella sera.
«Quanto ne so io per parlare quando non è il mio turno» dice la canzone. «Potrete dire che sono giovane, potrete dire che non ne so abbastanza». Quando Dylan ha cantato questi versi pochi giorni fa, dentro di sé forse avrà sorriso, ma nella sua voce non c’era ironia: malgrado il suo potere di artista, Bob Dylan oggi non ha più potere di quanto ne avesse nel 1963.
E così ha cantato Masters of War non come una minaccia, come faceva all’inizio, ma come una resa dei conti. Come un giudizio che piomba addosso a chi se lo è meritato. Un momento sospeso nell’aria. E la canzone continuerà a andare oltre. Congratulazioni, Bob Dylan.
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