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ITALIA DA BERE - CRISTIANA LAURO: DI COSA SI PARLA A VINITALY? DI INFLUENCER, PREVALENTEMENTE DONNE, CHE NON SANNO UNA MAZZA DI VINO MA GUADAGNANO UN SACCO DI QUATTRINI - D'ALEMA: "IL CATTIVO VINO DANNEGGIA IL PAESE COME LA CATTIVA POLITICA"

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Cristiana Lauro per Dagospia

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Si è conclusa Vinitaly, la fiera più importante di vini italiani che rappresenta ogni anno per la città di Verona un gran bel giro di affari, forse il più importante, considerando almeno cinque giorni di full booking in città e dintorni. In quanto a senso dell'ospitalità fra ristoranti, alberghi e servizio taxi pubblici, salvo qualche eccezione, persiste una specie di fastidio nei confronti del pubblico che spende un sacco di soldi. Strano senso dell'ospitalità e della vendita.

 

Tiriamo le somme: sta per scadere il tempo del wine &/or food blogger il cui concetto di emolumento, fino ad ora e nella migliore delle ipotesi, coincideva con due fette di salamazzo e una sbronza da manuale. Il critico mascherato Valerio M. Visintin molla temporaneamente il suo campo da gioco abituale e interpreta su vivimilano.corriere.it, la novità più eclatante di questa edizione di Vinitaly: la febbre da influencer.

 

Prevalentemente donne, pare non capiscano una mazza di vino - ma in questo caso non rileva - e sono ben pagate, dipendentemente dal numero di follower, per postare sui social foto di etichette di vino e basta. Meno c'è da spiegare, più è coperta e garantita la prestazione. Pare emettano regolare fattura.

 

Quanto a temi più importanti si è parlato di sostenibilità e il focus principale lo ha centrato Confagricoltura con una tavola rotonda moderata da Andrea Scanzi, persona più che informata dei fatti sul tema vino. Marco Caprai, produttore e presidente di Confagricoltura Umbria ha esposto il progetto New Green Revolution. Le normative intorno alla sostenibilità e al biologico sono molto indietro rispetto alla richiesta del pubblico, ma la ricerca deve andare avanti.  

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Tutto questo sposta l'asse di attenzione su esigenze diffuse e internazionali e manda in dissolvenza inservibili nicchie che hanno, fin qui, parlato di vino "naturale" con un obiettivo elitario tutt'altro che rivolto ai consumi. Ma chi muove i numeri del vino? Non di certo le nicchie, lo sanno bene i produttori.

Insomma, la tecnologia deve essere un alleato e la ricerca serve anche a questo.

 

Altra novità è la bottiglia con allegato l'alcol test proposta da una cantina siciliana che ricorda e sostiene il consumo responsabile di alcol attraverso "A Glass of Life". Può essere divertente alzare il gomito, ma è senza dubbio pericoloso, dati alla mano. Occorre farci caso. mettere a rischio la propria vita e quella degli altri guidando sbronzi può trasformarsi in un guaio irrimediabile, altro che ritiro della patente.

 

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E poi le serate dopo fiera in giro per Verona. Fra i posti più belli, divertenti e frequentati c'è l'Osteria Sottoriva, il top della cortesia con ottimi champagne, pastisada de caval, trippa e polpette. Poi l'intramontabile Bottega del Vino e i ristoranti Il Cristo (pesce eccezionale e cantina super), i Masenini nelle due versioni di carne e di pesce, entrambe in centro città. Imperdibile Casa Perbellini, del pluristellato Giancarlo Perbellini. Un po' meno interessante l'Oste Scuro, invece, che trovo un filo sopravvalutato. A quindici minuti d'auto da Verona è ottimo Trattoria La Coa' con servizio gentile e accurato. Buonissimi la sfoglia tirata a mano, le lumache à la bourguignonne, la carne salada e il carrello dei dolci. Tutto rigorosamente home made.

 

2. L' ANNO DEL RISVEGLIO AFFARI (E SCOMMESSE) AL VINITALY

 

Luciano Ferraro per il Corriere della Sera

 

Massimo D' Alema scruta il suo Pinot nero 2013 dall' Umbria e si avvicina al microfono. Va in scena l' ultimo grande evento del Vinitaly edizione 51, affollato da 128 mila visitatori, con altrettanti calici alzati in quattro giorni. Il vino di D' Alema (azienda Le Madeleine) è uno dei 12 in rassegna del Wine Research Team, la fucina di innovazione del super enologo Riccardo Cotarella.

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Un Pinot nero morbido e senza spigoli. Ai quali D' Alema non rinuncia. «I giornalisti mi chiedono, banalmente, se sia più difficile fare politica o vino. È ugualmente difficile e appassionante. Fare cattiva politica e cattivo vino è un danno al Paese. Noi cerchiamo di non far danni».

 

Visto dal corpaccione viola del Vinitaly, 4.270 espositori da 30 Paesi, la fiera più grande al mondo (con maggior ordine rispetto al passato), i danni all' Italia da bere sono invisibili. Il team di Cotarella è lo specchio di una fetta dell' economia che investe, fa ricerca e piace. Non solo all' estero, che con 5,6 miliardi di euro di bottiglie vendute è stata la scialuppa di salvataggio per i vignaioli italiani nell' era della crisi. «Il mercato italiano non è più fermo.

 

Quest' anno ha sancito l' uscita dal letargo degli acquisti interni», proclama Giovanni Mantovani, direttore di Veronafiere. È vero che l' Italia beve sempre meno (33 litri l' anno pro capite contro i quasi 48 di dieci anni fa), ma inizia a spendere un po' di più. «Arrivano nuovi ordini da ristoranti e enoteche italiane - conferma Patrizio Cencioni, presidente del Consorzio del Brunello di Montalcino - ci sono buoni segnali».

 

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Luca D' Attoma, enologo e produttore in Toscana (Duemani), fa un bilancio: «È stato un Vinitaly in cui si è tornati a firmare contratti. Sono decollati la Sicilia dell' Etna e l' Abruzzo». Giuseppe Liberatore, direttore del Consorzio del Chianti Classico, è ottimista: «Negli ultimi due anni le vendite in Italia sono salite dal 18 al 22%. Forse si vede la fine del tunnel». «L' Italia riprende, ma servono prezzi competitivi soprattutto per la grande distribuzione - dice Olga Bussinello, direttrice del Consorzio della Valpolicella -.

 

Per l' Amarone è stato un anno interessante: alla faccia della Brexit, sono arrivati molti operatori esteri». Mantovani li ha contati: 30.200. Frena gli entusiasmi Francesco Zonin, vice presidente del gruppo con 2.000 ettari in 10 tenute: «Cresciamo in Usa e Canada, ma esploriamo nuovi mercati. Abbiamo inviato un resident manager in Nigeria».

 

Nella degustazione di ieri, il professor Attilio Scienza, l' Indiana Jones delle viti che crea piante resistenti a malattie e siccità, traccia il percorso dei prossimi anni: «Il futuro è il tradimento della tradizione, abbandonare riti e arcaismi e affidarsi alla ricerca per affrontare con rapidità i cambiamenti climatici». Attorno a lui, un gruppo di produttori che rappresenta un campione dell' Italia da bere: produttori storici come De Castris, che «inventò» il rosato nel Dopoguerra pugliese; gli appassionati diventati imprenditori, come il giornalista Bruno Vespa con il suo Raccontami pugliese o l' albergatore Giuseppe Pagano (San Salvatore, nel Cilento) che ha dedicato il vino a Gillo Dorfles (ovazione in sala per i 107 anni compiuti ieri dal critico d' arte); cultori della storia enologica, come Salvatore Avallone (Villa Matilde) che in Campania vinifica il Falerno che beveva Giulio Cesare.

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Buoni affari e voglia di nuove scommesse, questo è stato il Vinitaly 2017. Come dice Cotarella, che ha studiato dai gesuiti, «se tutti i salmi finiscono in gloria, la degustazione con D' Alema e gli altri 11 è stato il gloria per il Vinitaly».

 

3. FEBBRE DA INFLUENCER

Da mangiare.milano.corriere.it

 

– Ciao, Bepi. Come xe andà col tuo stand del Vinitaly?

– Bèn, dai. Bastansa.

– Hai trovato poi l’ufficio stampa che ti cercavi?

– No, no. G’ho l’influenser.

– Aaah, me spiase. Sarà stà l’aria condisionada.

 

E invece no. L’influencer è una calamità innaturale che prescinde dalle condizioni climatiche. Mi dicono che per la prima volta abbia imperversato al Vinitaly. Tra gli stand veronesi, è stata avvistata una rappresentanza di adolescenti d’ogni età (l’adolescenza è una condizione dell’animo) col sorriso di paglia e il cervello smarrito tra le app.

 

Povere fuffblogger, superate dall’insorgenza di questa nuova specie umana. Adeguarsi o perire. Il processo di estinzione è già in atto.

D’altra parte, le influencer hanno un impatto più rapido, fluido, disimpegnato. Mi dicono che non è richiesta alcuna abilità particolare. Anzi, ove sussista, è di potenziale intralcio. Non serve altro che l’occhio di un obiettivo per precipitarsi a infestare Twitter e Instagram, o altro social, con foto e con video.

Il successo sta appunto nell’estrema semplificazione del linguaggio.

 

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Le fuff-influencer sono carte copiative. Non debbono sforzarsi di scrivere e tanto meno di pensare. Nella maggior parte dei casi, si risparmiano persino le didascalie, limitandosi ai tags. E, per amor di coerenza, si guardano bene dal conoscere la materia della quale si occupano. Mi dicono che conta pochino persino la qualità delle immagini che rigurgitano.

 

Gli utenti, dal canto loro, non hanno altro impegno che seguire la scia luminosa di queste fatine della réclame. Basta un click per entrambe le parti. È una mutua assistenza tra pigrizie diverse; tra insipienza e credulità, improvvisazione e inerzia.

 

Ai tempi antichi delle blogger, che ormai rimpiango, per inoculare un messaggio pubblicitario, serviva l’attenzione necessaria a una lettura, per quanto svagata. Oggi, la fruizione si è mal ridotta al tempo di uno sguardo. Mi dicono, insomma, che da lettori siamo diventati guardoni.

 

Le aziende lo sanno e ingaggiano questo piccolo esercito di comunicatrici, alleggerendo gli investimenti tradizionali sui media e spolpando le buste passate sottobanco ai giornalisti.

Mi dicono che le regine del click hanno tariffe calibrate sul numero dei follower. Che a volte sono falsi, comprati al mercato nero (ed è preoccupante) e a volte sono autentici (e forse è ancor più preoccupante).

 

Il prezzo del loro tempo parte da 300 euro al dì, per i piani più bassi della categoria. Ma se l’influencer ha un patrimonio personale di almeno 20mila follower, il compenso sale a 2/3 mila euro al giorno. E può ascendere ancora, sino a cifre che, francamente, preferisco continuare a ignorare.

 

Mi chiedo, piuttosto, quale possa essere il profilo di un utente così sprovveduto da lasciarsi supinamente contagiare da queste fuffine. Mi dicono che il target è molto ampio, per età e scolarizzazione. Va dai 10 ai 40 anni, addirittura. Con una prevalenza di genere femminile.

 

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Non è che il messaggio pubblicitario abbia sempre un effetto immediato e coercitivo sul follower, mi dicono. Più spesso, è un suggerimento subliminale che lavora sottotraccia. E che condiziona a rilascio lento. A meno che l’obiettivo non sia quello di una convocazione urgente per un evento circoscritto nel tempo. In quel caso, mi dicono, se l’influencer ha credito, la folla la segue come i topi vanno appresso al pifferaio dei fratelli Grimm.

 

Piccole e grandi ditte, ristorantini e industrie alimentari ingaggiano le influencer per conquistare un posto al sole o per consolidare la propria visibilità. Lo fanno direttamente o attraverso specifiche agenzie. Altrimenti, inviano prodotti in omaggio per sondare il terreno in vista di un contratto ufficiale.

Mi dicono che il mio disappunto è dettato soltanto dalla veneranda età che mi tarpa le ali. Non posso capire, mi dicono. Ho un senso critico inutilmente sviluppato, che mi impedisce di guardare alla modernità col dovuto ottimismo.

 

Mi dicono che debbo rassegnarmi a questo Truman Show permanente.

Io, però, non sono pronto.

Qualcuno di voi mi dica, per carità, che non è vero nulla di tutto ciò.

Oppure, tacete per sempre e lasciatemi piangere.

 

D'ALEMA NARNOTD'ALEMA NARNOT