LE LETTERE-TESTAMENTO DEL GIUDICE D'AMICO: “VOGLIO MORIRE, SONO DUE ANNI CHE LI SUPPLICO. AGISCONO CON ECCESSO DI PRUDENZA”

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Carlo Macrì per "Corriere.it"

«C'è poco da capire. In una situazione come la mia io voglio morire perché aggredito da una malattia terribile in fase avanzata e terminale». Scriveva così il giudice Pietro D'Amico all'amico Edoardo Anselmi. Era il 27 aprile 2010. Tre anni dopo, la decisione del magistrato di farla finita con «la dolce morte» praticata nella clinica di Biel-Benken, in Svizzera. Quella lettera-confessione (in realtà sono due) oggi è diventata un testamento. «Sto pensando a qualcosa di indicibile e che nessuno può immaginare. Vado in Svizzera poiché là vi è la Dignitas che provvederà nel caso come il mio».

«AGUZZINI-EROI» - Pietro D'Amico li chiama «eroi» i suoi futuri aguzzini. Che bacchetta pure definendoli «crudeli» sol perché «sono quasi due anni che li supplico e invece mi rimandano di settimana in settimana con scuse banali e interminabili». Evidentemente i documenti medici che Pietro D'Amico presentò all'epoca non erano stati considerati sufficienti per praticare «la dolce morte» al paziente.

E così l'ex magistrato di Vibo ha messo in moto la sua capacità oratoria per convincere due medici a certificare patologie che potessero dare «la luce verde». Si rivolse a un suo amico il dottor Antonio Lamorgese di Pesaro e poi alla dottoressa Elisabetta Pontiggia, specialista in oncologia con studio a Pavia.

«Pietro ha ingannato anche me. Mi ha chiesto quel certificato dicendomi che gli sarebbe servito per la pratica di prepensionamento» - dice Lamorgese. «Comunque non era assolutamente in pericolo di vita» - afferma sempre il medico di Pesaro. «Soffriva di sifilide contratta negli anni della gioventù. Non si era curato e con gli anni questa patologia gli ha intaccato il sistema nervoso, provocandogli una serie di problemi fisici». A Pavia, invece, l'ex magistrato si sottopose ad alcuni trattamenti di terapia infusiva, come scrive l'oncologo Pontiggia.

LE LETTERE E I REFERTI - Pietro D'amico era una persona molto sensibile. Colto, studioso di diritto, era stato coinvolto in una delle inchieste del collega Luigi De Magistris, quando l'attuale sindaco di Napoli era pubblico ministero a Catanzaro. Solo sospetti, poi tutto è stato archiviato. Ma per lui si trattò ugualmente di una vergogna e da quel momento la sua vita cambiò. Nelle lettere inviate all'amico Anselmi, Pietro D'Amico ha parole di gratitudine verso Erika Frau, la dottoressa che l'ha aiutato a morire.

Non mancano però le critiche all'equipe della Dignitas che rimprovera perché «persone che agiscono con eccesso di prudenza», mentre invece «dovrebbero essere più coraggiosi, perché solo così potranno dimostrare la loro testimonianza in tutto il mondo». Poi una lode a se stesso. «Non è bello per un magistrato un suicidio senza dignità, fatto da me, senza essere assistito».

In realtà l'amico al quale ha scritto le lettere è una persona che il magistrato ha visto una volta soltanto: un regista che proprio nel 2010 aveva girato un documentario sul suicidio assistito e che aveva chiesto alla Dignitas il contatto con una delle persone che volevano morire. «Fu lui a contattarmi» dice oggi Anselmi. «E io girai un filmato di dieci minuti nel quale lui mi spiegava il perché della sua scelta. Le stesse spiegazioni che ha poi scritto nelle lettere.

LA FIGLIA: «NON CI CREDO ANCORA» - Sua figlia Francesca, laureanda in medicina, ancora oggi non riesce a credere che sia andata così: «Mi chiamarono dalla Svizzera e mi dissero che mio padre era morto». Io cadevo dalle nuvole, non avevo mai saputo che lui fosse iscritto a Dignitas né che fosse in Svizzera. Ero convinta che fosse un errore, una omonimia... «Lei si sbaglia» continuavo a dire alla dottoressa che mi chiamò. E invece era tutto tragicamente vero».

Alla Dignitas hanno rinviato più e più volte l'appuntamento con la morte e nelle sue lettere D'Amico se ne lamenta. Probabilmente è anche per questo che alla fine si è rivolto a un'altra associazione, quella della dottoressa Erica Preisig («a lei va la mia totale gratitudine perché ha capito le mie sofferenze»), che in passato ha lavorato a lungo alla Dignitas. «Io non contesto l'aspirazione alla dolce morte e rispetto la scelta di mio padre» - dice Francesca - «Però ne faccio un problema di deontologia. Possibile che lui arriva in Svizzera con due documenti sulle sue condizioni di salute e che nessuno faccia accertamenti per capire, confermare, accertare...possibile?».

E ancora: «quale medico si può arrogare il diritto di disporre della vita altrui? Io voglio andare fino in fondo a questa faccenda e assieme al mio avvocato abbiamo chiesto che la magistratura italiana e quella svizzera indaghino per capire come sono andate esattamente le cose e se sono stati commessi errori».

 

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