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Il generale libico, Khalifa Haftar, comandante delle forze armate che fanno capo al Parlamento di Tobruk, sarebbe ancora vivo. Dopo ore di allerta, fatto di conferme e smentite, sulla falsa riga dei giorni scorsi in cui il suo malore è stato più volte negato, a voler far chiarezza sulla situazione è l’Unsmil, l’United Nations Support Mission in Libya dell’Onu, con un tweet, testimoniando un colloquio telefonico con Haftar.
Ma è sempre su Twitter che per ore si è inseguita la notizia della morte del comandante delle forze armate fedeli al Parlamento di Tobruk. Erano giorni che si inseguiva la notizia di un suo malore. Informazione prima smentita poi confermata: il comandante delle forze armate fedeli al Parlamento di Tobruk si trovava ricoverato all’ospedale Val de Grace di Parigi dallo scorso 5 aprile a causa di una emorragia celebrale.
Tuttavia Al Arabiya, citando fonti libiche, ha smentito la notizia della morte, affermando che il generale Haftar avrebbe parlato al telefono con l’inviato Onu in Libia, Ghassan Salamè.
Uno scenario politico tutto da capire
In Libia, la possibile morte dell’uomo forte della Cirenaica potrebbe causare una rottura dello «stallo» e «un rimescolamento delle dinamiche interne e internazionali». Sono gli «scenari azzardati» delineati in un’intervista ad Aki-Adnkronos International da Arturo Varvelli, responsabile per il Medio Oriente e il Nord Africa dell’Ispi. «Privarsi di un attore che fino ad adesso è stato piuttosto importante sicuramente avrà delle conseguenze» perché «in Libia, al di là della questione Haftar, le rivalità personali contano parecchio», sostiene l’esperto.
L’uscita di scena del generale della Cirenaica, la parte est della Libia, apre infatti scenari inesplorati: senza la sua presenza, rischia di frantumarsi la coalizione di forze che aveva creato senza peraltro indicare un possibile successore. Coalizione, collegata al parlamento di Tobruk, che il generale ha spesso contrapposto al governo di Tripoli, guidato dal premier Fayez Al Sarraj e riconosciuto dalla comunità internazionale.
L’ambizione del 75enne Haftar era quella di fare il leader: dal 2014 - in parallelo con il percorso del presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi - aveva assunto il ruolo di castigatore di jihadisti e Fratelli musulmani, che ha cacciato da Bengasi in maniera completa a dicembre. Ma controllava anche buona parte del paese grazie ad appoggi di alleati stranieri - Emirati Arabi Uniti ed Egitto in testa - che gli hanno consentito di conquistare pure alcuni strategici terminal petroliferi.
L’inconfessata presenza di paramilitari a Bengasi e la tutto sommato inutile stretta di mano dell’estate scorsa col premier Fayez Al Sarraj a Parigi - con il presidente francese Emmanuel Macron in mezzo alle foto - hanno attestato il sostegno della Francia. Il colbacco con cui si è lasciato fotografare a Mosca simboleggiava invece quello russo. Ma Haftar aveva anche un forte legame con gli Usa. Era stato fra gli ufficiali che aiutarono Muammar Gheddafi ad abbattere re Idris nel 1969 ma poi il colonnello-rais lo scaricò quando il militare si fece catturare in Ciad nell’87: da lì Haftar guidò un fallito golpe sostenuto dalla Cia per abbattere Gheddafi e finì a vivere per due decenni da esiliato in un sobborgo della Virginia, diventando pure cittadino naturalizzato americano.
I rapporti con gli Usa
Il legame con gli Usa si era riappacificato di recente: oltre che da incontri ad Amman anche con un via libera al ritorno della Cia a Bengasi.
L’esercito nazionale libico (Lna), di cui era «comandante generale», pur presentandosi come perfettamente inquadrato resta un mix di milizie e reparti regolari. Una formazione però abbastanza forte da spingersi a controllare anche tratti del deserto meridionale della Libia, un altro teatro di potenziale caos.
A livello politico, a Parigi l’anno scorso firmò un accordo per tenere elezioni presidenziali entro quest’anno: una possibilità ormai fattasi remota. E sebbene gli venissero ascritte velleità di candidatura, la sua concezione del paese orfano di Gheddafi era - ancora un volta sulla falsariga di Sisi - pessimista: «La Libia di oggi non è matura per la democrazia», che potrà essere sperimentata «forse da future generazioni», disse ancora in marzo al settimanale Jeune Afrique.
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