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Elisabetta Andreis per “Il Corriere della Sera”
Sta in un bellissimo posto, riparato, protetto, riservato, pieno di verde. Lontano dai riflettori e presso una famiglia che non è sola, ma organizzata in rete con altre con cui condivide percorso formativo e alcuni momenti della giornata. Insieme ad altri bimbi, nella stessa casa, forse. «Fratellini» per qualche tempo.
Il figlio nato a Ferragosto da Martina Levato e Alexander Boettcher è accolto in una comunità a carattere familiare adatta anche a neonati come lui, fuori Milano. Lì starà almeno fino al 30 settembre quando si chiuderà l’«indagine sociale» con cui il Tribunale per i minorenni di Milano si è ripromesso di valutare l’ipotesi di un possibile (ma improbabile) affido ai parenti naturali.
Da venerdì, quando i giudici hanno deciso la sua prima fetta di futuro, il piccolo Achille, 3,8 chili di peso e otto giorni di vita, si trova lì. Mentre i genitori sono a San Vittore, condannati in primo grado a 14 anni per aver sfregiato con l’acido un ex amico della madre e accusati di altre aggressioni altrettanto «premeditate e crudeli».
La formula di queste comunità con famiglie di un’associazione che le sostiene e prepara «è la migliore e la più avanzata per casi di questo tipo», valuta Carlo Trionfi, psicoterapeuta che segue minori per l’Istituto Minotauro. I piccolissimi hanno «assoluto bisogno di attaccarsi a una figura stabile e costante di riferimento che faccia temporaneamente le veci materne». E se tale possibilità non viene garantita, spiega, «in pochi mesi possono crearsi danni evolutivi importanti». Ecco perché è stata scelta quella struttura.
«I neonati devono ritrovare nelle loro giornate sempre gli stessi ritmi, lo stesso sorriso, lo stesso odore, la stessa voce. Per loro è imprescindibile», si accorda Flavia Salteri, educatrice della cooperativa Comin che segue casi analoghi.
E la psicoterapeuta Michela Gardon del Cbm, Centro bambino maltrattato, aggiunge: «Solo se la valutazione sulle competenze genitoriali, anche in prospettiva, è negativa, si va verso l’adozione, sempre extrema ratio ».
Sulla «coppia dell’acido» però già gravano pesanti giudizi. Ultimi in ordine di tempo quelli del Tribunale dei minorenni che nel dichiarare madre e padre «non in grado di occuparsi» del figlio, cita diversi aspetti. E non solo l’attuale stato detentivo, che per ora ha fatto decadere la patria potestà.
L’«assenza di pensiero e sentimento» rispetto alla vita che si stava formando nella pancia di Martina mentre — già incinta — scagliava crudelmente l’acido «sostenuta e supportata» dal compagno, ad esempio. La «preponderanza» di paurosi «aspetti inerenti la dimensione aggressiva e rivendicativa». La «subordinazione» del concepimento rispetto al piano criminale che puntava a «cancellare» o sciogliere con l’acido il viso degli ex di Martina. O ancora la «scarsa empatia» e «incapacità di immedesimarsi» nei bisogni di un altro, così essenziale quando si diventa mamme e papà.
Adesso il nodo da affrontare sarà definire la frequenza delle visite di questo bambino in comunità ai suoi genitori e parenti.
Li potrà vedere ogni tanto, in queste settimane, con modalità «protette e osservate» e forse in un luogo neutro o in carcere.
Con la mamma (neanche vista per i suoi primi tre giorni di vita e poi, nei successivi quattro, incontrata solo mezz’ora ogni mattina), non avrà altri contatti almeno fino a lunedì. E con il padre, che non ha ancora conosciuto, ancora più a lungo. Ma i legali, sul punto, promettono battaglia.
Ieri Alexander, tramite avvocati, ha detto che si vuole far carico (anche economicamente) del figlio. E che si è pentito di «non aver saputo impedire e arginare iniziative di morbosa esternazione del sentimento estremo provato da Martina per lui».
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