A CHE GIOCO GIOCA TOTÒ RIINA? LE SUE “RIVELAZIONI” AL BOSS LORUSSO REGISTRATE IN CARCERE PUZZANO DI DEPISTAGGIO - DAVVERO BORSELLINO AVREBBE ATTIVATO LA BOMBA CHE L’HA UCCISO SUONANDO IL CITOFONO DELL’ABITAZIONE DELLA MADRE?

1 - "NEL CITOFONO DI VIA D'AMELIO IL DETONATORE DELL'ESPLOSIVO"
Riccardo Arena per "la Stampa"

I conti non tornano più: Totò Riina fa «rivelazioni» sulla strage Borsellino e al suo compagno di «socialità» Alberto Lorusso racconta che l'inferno in via D'Amelio lo avrebbe scatenato involontariamente lo stesso giudice, suonando il campanello del citofono dell'abitazione palermitana della madre. Perché proprio nel citofono sarebbe stato nascosto il collegamento al congegno che avrebbe fatto esplodere l'autobomba.

Dunque sarebbe bastato che un'altra persona schiacciasse lo stesso pulsante per anticipare l'esplosione e salvare la vita a Paolo Borsellino e ai cinque agenti di scorta che morirono con lui. E soprattutto ci sarebbe voluto un lavoro complicato sul quadro dei citofoni, in un'epoca (il 1992) in cui la tecnologia non era così avanzata come è oggi, e in un momento in cui (pochi giorni dopo la strage di Capaci) qualsiasi movimento sospetto sotto casa della madre del magistrato avrebbe suscitato allarme.

Il dialogo in questione sarebbe stato intercettato nell'agosto scorso e fa parte di quelli che la Dia sta via via trascrivendo e consegnando ai pm di Palermo. Le presunte rivelazioni di Riina sono state trasmesse agli inquirenti di Caltanissetta, che da tempo hanno riaperto le indagini su via D'Amelio e sui depistaggi istituzionali: e l'ufficio diretto da Sergio Lari dubita dello stratagemma del citofono, dallo stesso Riina definito «un colpo di genio».

Emerge infatti tutta un'altra verità, dai nuovi accertamenti, scaturiti dalle confessioni di Gaspare Spatuzza, che giusto oggi sarà interrogato a Roma, nell'ambito del processo palermitano sulla trattativa Stato-mafia: il pentito ha parlato di un telecomando azionato da Giuseppe Graviano, che si sarebbe nascosto dentro un edificio in costruzione e dietro il muro di un giardino.

Nessun altro collaboratore, nemmeno Fabio Tranchina, pure lui ascoltato ieri a Rebibbia, sa del comando nel citofono. Mentre intanto emerge il coinvolgimento di un ex 007, Giovanni Aiello, detto «Faccia da mostro», che è sospettato di avere fornito il telecomando ai killer.

Ed è per questo che chi indaga comincia a pensare che Riina voglia allontanare i sospetti dai Servizi, con i quali non potrebbe mai ammettere di aver avuto rapporti. E che per farlo abbia sfruttato Lorusso, un perfetto sconosciuto, per lui, un piccolo boss della Sacra Corona Unita pugliese con il quale il capo di Cosa nostra si lasciava andare a racconti dettagliati e feroci sui principali delitti commessi da Cosa nostra.

La Procura di Palermo avrebbe intanto individuato il «signor Gianni», l'agente dei Servizi che, negli anni '80, avrebbe accompagnato l'ex questore Arnaldo La Barbera (poi morto, oggi sospettato di depistaggi su via D'Amelio) a trovare in carcere, in Inghilterra, l'allora capomafia Francesco Di Carlo, oggi pentito. A Di Carlo sarebbe stato chiesto di trovare un modo per infangare, delegittimare, fermare Giovanni Falcone, cosa che stava a cuore, secondo quanto avrebbero detto «Gianni» e La Barbera, a personaggi politici italiani.

Gianni, legato a Di Carlo da un rapporto di scambio reciproco, favori in cambio di informazioni, non è il misterioso «signor Franco», mai individuato, di cui aveva parlato Massimo Ciancimino. Ieri a Palermo sono tornati in azione, dopo un anno di silenzio, i killer di mafia: ucciso in pieno giorno un presunto emergente, Giuseppe Di Giacomo, fratello del boss Giovanni. Si è salvato per miracolo il nipotino di nove anni che era con lui.

2 - IL CITOFONO DI VIA D'AMELIO SERVE A RIINA PER DEPISTARE?
Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera"

Come provenissero da una distilleria, i colloqui intercettati tra Totò Riina e il suo ex compagno di «ora d'aria» Alberto Lorusso continuano a filtrare goccia dopo goccia, non nella loro interezza ma a pezzetti e riassunti dei discorsi pronunciati dall'anziano capomafia. L'ultimo frammento divenuto di pubblico dominio potrebbe definirsi clamoroso. Non tanto per ciò che rivela, quanto per gli interrogativi che rovescia sul complesso delle registrazioni effettuate su ordine della Procura di Palermo, tra agosto e novembre scorso.

Il boss corleonese, dopo aver «confessato» a Lorusso la propria responsabilità sulla strage di via D'Amelio che uccise Paolo Borsellino e cinque agenti scorta (negata invece ai pubblici ministeri di Caltanissetta, invitati a cercare dentro lo Stato), avrebbe aggiunto un nuovo particolare. Secondo Riina, Borsellino si sarebbe fatto saltare in aria da sé, suonando al citofono della madre a cui era andato a far visita il pomeriggio del 19 luglio 1992, perché a quel pulsante era collegato il meccanismo d'impulso che fece esplodere il tritolo nascosto nella Fiat 126 parcheggiata lì accanto.

I mafiosi, in sostanza, avrebbero rinunciato alla tecnica del telecomando azionato «a vista» usata in tutti gli altri attentati (riusciti e falliti, dalla bomba che uccise Chinnici nel 1983 fino alla mancata strage dello stadio Olimpico di Roma, gennaio 1994) per nascondere l'innesco dentro la pulsantiera di un citofono. «Un colpo di genio» ha commentato Riina. Che però suona poco credibile.

Perché pare un azzardo troppo grande andare ad armeggiare su un citofono in strada, a nemmeno due mesi dalla strage di Capaci; e perché in teoria a quel citofono manomesso, prima di Borsellino avrebbe potuto suonare chiunque. E se c'era qualcuno che comunque controllava a distanza, perché cambiare modalità d'azione? Per quale motivo Cosa nostra avrebbe dovuto assumere simili rischi?

Ma soprattutto la ricostruzione del «capo dei capi», oltre a non trovare riscontro nelle dichiarazioni di nessun pentito, confligge con la testimonianza del collaboratore di giustizia che proprio ieri ha deposto al processo sulla presunta trattativa Stato-mafia, e accreditato di una certa attendibilità. Fabio Tranchina, che in quel periodo era l'autista di Giuseppe Graviano, ha raccontato che dopo alcuni sopralluoghi il suo boss aveva accennato all'ipotesi di appostarsi dietro un muretto vicino al palazzo di via D'Amelio; e che lui stesso, su ordine di Graviano, andò a comprare due telecomandi.

Di qui la «ragionevole deduzione» degli inquirenti nisseni sul fatto che proprio Graviano abbia attivato l'innesco. Ora gli stessi pubblici ministeri devono fare i conti con questa intercettazione. Che però, nell'ipotesi (da verificare, ovviamente, con tutte le difficoltà del caso) che non sia veritiera, suscita ulteriori quesiti: perché Riina si lascia andare a questa versione? Solo «manie di grandezza» o c'è dell'altro?

E' stata fatta nella consapevolezza di essere intercettato, magari dopo che le prime notizie sulle minacce al pm Di Matteo avevano svelato la presenza delle microspie nel cortile del carcere? E con quale obiettivo? Screditare le sue precedenti confidenze, tentare di smentire i pentiti oppure seminare altra confusione, in una storia dove già ce n'era (e ce n'è ancora) fin troppa?

 

 

 

TOTO RIINA 1 toto riinaPAOLO BORSELLINO CON LA MOGLIE AGNESE paolo borsellino MASSIMO CIANCIMINO