IL BOTTO DI FINE ANNO: IL 1 AGOSTO 2024 (DUE SETTIMANE DOPO IL TAGLIO SUL CAPOCCIONE) GENNARO…
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera”
Forse un esempio può aiutare a capire il problema. Nella primavera del 2014, quando rientrò in Europa dalla Siria, facendo un lungo giro dal sudest asiatico, il francese di origine algerina Mehdi Nemmouche sbarcò a Francoforte. L‘autorità di frontiera tedesca si accorse che era segnalato come sospetto terrorista e avvisò la sicurezza francese, perché la segnalazione era arrivata da Parigi. Poi se ne persero le tracce, finché Nemmouche è riapparso a Bruxelles, il 24 maggio, dove — secondo l’accusa — ha ucciso quattro persone. Se lo stato d’allerta sul suo nome fosse stato esteso alle altre forze di polizia europee, forse i suoi movimenti per il continente si sarebbero potuti intercettare prima.
Forse. Ma contro il terrorismo internazionale si va per tentativi, e per seguire e monitorare le persone giuste è essenziale lo scambio delle informazioni. Che in Europa resta una chimera. Oggi a Bruxelles i ministri dell’Interno torneranno a riunirsi per provare a fare qualche passo avanti, dopo il richiamo del commissario agli Affari interni Dimitris Avramopoulos: «Abbiamo bisogno di maggiore coordinamento nel settore dell’ intelligence, gli Stati si devono fidare tra di loro».
Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker sembra ancora più deciso: «La cooperazione tra i servizi segreti europei era stata decisa a fine 1999, dopo gli attentati nel 2001 negli Usa lo abbiamo ribadito, ma questo non avviene per ragioni che mi sfuggono».
In realtà le ragioni le conoscono tutti, compreso Juncker: dare disposizioni ai propri apparati di sicurezza, da parte dei singoli governi nazionali, di condividere le conoscenze acquisite per lavorare in sinergia con gli altri Paesi significa rinunciare a una quota di sovranità; affidandola all’Unione Europea.
All’indomani di ogni attentato sono tutti d’accordo, ma al momento di mettere in pratica le dichiarazioni di principio si fa molta più fatica; bisogna riconoscere affidabilità e fiducia all’interlocutore, e questo non sempre avviene. Ne consegue che la cooperazione bilaterale funziona, anche abbastanza bene, dal momento che i due interlocutori si scelgono e procedono insieme, mentre costruirne una multilaterale, a livello europeo, è molto più complicato.
Il ministro Alfano propone di esportare il modello italiano del Comitato di analisi strategica antiterrorismo, dove le conoscenze messe sullo stesso tavolo dalle diverse forze di sicurezza e di polizia danno vita a controlli a tappeto che finora hanno prodotto buoni risultati.
Ma in Francia lo scambio di informazioni non avviene nemmeno a livello interno, figurarsi all’esterno. Con una certa dose di realismo il prefetto di Roma Franco Gabrielli, che da poliziotto e capo del servizio segreto civile ha maturato una lunga esperienza antiterrorismo, si mostra scettico: «In una realtà geopolitica dove è difficile mettere d’accordo gli attori su politiche migratorie di cortissimo respiro mi chiedo, retoricamente, se ci siano le condizioni affinché gli Stati si spoglino di uno dei cardini della loro sovranità, cioè l’intelligence ».
Per gli investigatori italiani, che gradirebbero attingere alle informazioni altrui almeno nella misura in cui mettono le proprie a disposizione di altri, la macchina di Europol, piena di potenzialità, si rivela spesso «senza benzina». Laddove la benzina sono le informazioni. Per fare un altro esempio: i nomi dei foreign fighters individuati in Belgio arrivano da noi solo in caso di procedimenti giudiziari. E il ministro della Giustizia Orlando denuncia «paurose debolezze, resistenze e ostilità» incontrate da lui stesso quando s’è trovato a discutere con i colleghi della tanto decantata Procura europea.
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