DAGOREPORT - TONY EFFE VIA DAL CONCERTO DI CAPODANNO A ROMA PER I TESTI “VIOLENTI E MISOGINI”? MA…
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera”
Prima ancora del volantino di rivendicazione - 15.396 parole di verbo brigatista inviate per posta elettronica - furono la pistola e i proiettili utilizzati dagli assassini a firmare l'omicidio del professor Marco Biagi, «giustiziato» (così scrissero) la sera del 19 marzo 2002 sotto i portici di Bologna: stessa arma e stesso tipo di munizioni impiegate il 20 maggio 1999 per uccidere a Roma il professor Massimo D'Antona; due docenti universitari, due giuslavoristi, entrambi collaboratori dei ministri del Lavoro di due differenti governi.
Due riformisti che cercavano soluzioni per comporre il conflitto sociale, obiettivi intercambiabili per gli epigoni della lotta armata che invece quel conflitto pensavano di acuire.
Poi arrivò il documento con il marchio della stella a cinque punte chiusa nel cerchio: «Con questa azione combattente le Brigate Rosse attaccano la progettualità politica della frazione dominante della borghesia imperialista nostrana...».
Espressioni mutuate dal secolo precedente per motivare una condanna a morte eseguita mentre la vittima rientrava a casa in bicicletta, pedinato dall'università di Modena fino all'appuntamento con il killer.
Un uomo, rimasto senza protezione perché l'attacco jihadista alle Torri gemelle di sei mesi prima aveva cambiato l'elenco degli obiettivi da proteggere, e su input del ministro dell'Interno qualcuno aveva deciso che il professore scortato dopo il delitto D'Antona non fosse più un bersaglio dei terroristi.
Un regalo per la sparuta pattuglia di tardo-brigatisti, inadeguata ad affrontare un qualunque dispositivo di sicurezza ma sufficiente per sparare a un uomo solo, che stava tornando dalla moglie Marina e dai due figli, Francesco e Lorenzo, che all'epoca avevano 19 e 13 anni e oggi sono due uomini realizzati.
Anche grazie alla forza della mamma: «Dovevo farne due cittadini che avessero fiducia nello Stato e nelle istituzioni. Volevo essere una persona positiva, come era Marco, e non farli vivere in una famiglia spezzata in cui la madre era piena di dolore e di rancore».
Dice di non provarne nemmeno per gli assassini di suo marito, Marina Biagi: «Non li ho mai odiati, e anche per questo non ho mai sentito il bisogno di fare percorsi di avvicinamento che non mi avrebbero dato nulla».
Li hanno arrestati un anno dopo gli spari di Bologna, il 3 marzo 2003, al prezzo di altre due vite: quella del sovrintendente di polizia Emanuele Petri, che aveva chiesto i documenti a due passeggeri in un normale controllo ferroviario senza sapere che erano due ricercati, e quella di Mario Galesi, rimasto ucciso nel conflitto a fuoco.
Era stato lui a sparare a Biagi, l'ultimo delitto pianificato dalle Brigate Rosse a trent'anni dalla loro prima azione armata. E ancora prima a D'Antona. Dopo undici anni di silenzio seguiti all'esecuzione di Roberto Ruffilli, 16 aprile 1988, un altro professore che progettava le riforme istituzionali.
I «tecnici» prestati al governo erano diventati l'anello debole da colpire, e da lì aveva ricominciato chi s'era messo in testa di rilanciare la lotta armata. All'arresto di Nadia Lioce, sorpresa sul treno insieme a Galesi, seguì nell'ottobre 2003, quello degli altri brigatisti rimasti in servizio, una dozzina di militanti ora tutti liberi dopo aver scontato le rispettive pene (compresa la «pentita» Cinzia Banelli, che vive sotto una nuova identità col figlio nato in carcere e neo-maggiorenne) ad eccezione di tre ergastolani: Lioce, Roberto Morandi e Marco Mezzasalma.
lioce morandi mezzasalma banelli galesi melazzi
La quarta, Diana Blefari Melazzi, s'è suicidata in cella nel 2009. I tre brigatisti superstiti hanno compiuto o stanno per compiere 19 anni di detenzione, e nonostante da tempo l'organizzazione non dia più segni di vita, sono tutti e tre ancora al «41 bis», il «carcere duro» introdotto per i terroristi degli anni Settanta, reinventato per i mafiosi all'indomani delle stragi del '92 e applicato anche agli ultimi militanti delle Br.
Da anni chiusi nelle rispettive prigioni tacciono e non lanciano più proclami di guerra, ma sono considerati in servizio permanente effettivo da Procure, forze di polizia e ministra della Giustizia che ha rinnovato i decreti nel settembre scorso.
«L'associazione terroristica è tuttora operante e risulta tuttora dedita ad attività di proselitismo nonché alla programmazione di gravissimi delitti», si legge nel provvedimento, e «l'attuale contesto sociopolitico, caratterizzato da forti tensioni, induce a ritenere concreto il pericolo di una ripresa di possibili azioni violente di natura eversiva».
Tra i segnali di rischio ci sono anche i saluti a Nadia Lioce inviati con un documento pubblico da un sedicente Movimento Femminista Proletario Rivoluzionario. Contro l'ultima proroga del «41 bis» Lioce non ha voluto presentare reclamo, mentre Mezzasalma s'è rivolto al Tribunale di sorveglianza per sapere quali siano gli elementi concreti a sostegno di «un teorema tanto suggestivo quanto astratto e sganciato dalla realtà». L'udienza per discuterne non è stata ancora fissata.
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