AVVISATE IL GOVERNO MELONI: I GRANDI FONDI INTERNAZIONALI SONO SULLA SOGLIA PER USCIRE DAI LORO…
Alberto Mattioli per “la Stampa”
Il primo applauso lo prende Alexander Pereira. Il sovrintendente della Scala adora arringare la sua platea, quindi si appalesa prima della prima nota per leggerle il messaggio con il quale Sergio Mattarella si scusa di non assistere alla Madama Butterfly , fa gli auguri, promette di venire presto, il tutto non senza una sottile ironia quirinalesca: il forfait è motivato da «ragioni di carattere istituzionale, a tutti note». Notissime, in effetti. Secondo applauso per Mameli, non obbligatorio in assenza di Presidente ma che Riccardo Chailly esegue comunque, perfino con un accenno di coro dalla platea.
Nei momenti di crisi, le certezze rassicurano. Per terminare con l' applausometro, da segnalare un vero trionfo alla fine: tredici minuti di applausi, con lievi disapprovazioni per il Pinkerton di Bryan Hymel, che in effetti è un errore di casting, e fortissime approvazioni con ululati e fiori specie per Chailly e la Cio-Cio-San di Maria José Siri. Rispetto alla routine santambrogesca, la notizia è che non è stato buato il regista; del resto, visto che una regia non c' è, sarebbe stato difficile.
Poi, per una volta, alla prima della Scala l'attenzione principale è sull'opera. I politici sono rimasti a Roma alle prese con la crisi, e così è tramontata la breve ma inebriante prospettiva di un giro di consultazioni «milanese», da tenere nel palco reale, che sciccheria. Quanto al foyer, è la consueta tonnara, però i soliti noti si vedono a ogni prima e insomma Bolle e la Fracci, Sala e Maroni sempre quelli sono.
Dunque, per una volta si è parlato soprattutto di Puccini e di Madama Butterfly , con un paio di considerazioni che illustrano, al solito, non solo lo stato dell' arte alla Scala ma alcune costanti del costume nazionale.
Prima: era l' ormai famosa Butterfly «originale», vale a dire quella che fu selvaggiamente fischiata al suo debutto alla Scala, nel 1904. Chailly, attualmente il pucciniano ottimo massimo, ne ha spiegato le ragioni milioni di volte (e poi, quel che più conta, l' ha anche diretta divinamente). Ha detto trilioni di volte che non si tratta di una Butterfly più «bella», ma di un' occasione per conoscere meglio sia l'opera sia Puccini.
Niente da fare: gli italiani, che fino a due giorni fa erano tutti costituzionalisti, adesso sono tutti musicologi, e in rete è tutto un ribollire di polemiche sul leso Puccini e sull' assoluta necessità di fare la Butterfly «definitiva» (che non esiste), e mai che venga voglia a qualcuno di sentire qualcosa di nuovo.
PINKERTON IN STILE TRUMP
Invece questa ur-Butterfly è interessante, cruda, diretta, dura e, se vogliamo, anche assai attuale. Pinkerton risulta ancora più verme del solito e soprattutto ancor più pieno di disprezzo colonialista per chiunque non sia yankee come lui. Chiama i giapponesi «musi», ne deride usi, costumi, religione e perfino cibo (e qui, in tempi di sushi triumphans, Puccini risulta meno preveggente): insomma, verrebbe da dire, è un perfetto Pinkerton-Trump.
Seconda considerazione. Il vero problema di questo spettacolo, al netto del quarto d' ora di «bravo!», è che la direzione va da una parte e la regia da un' altra. Tanto quanto Chailly è affilato, novecentesco, asciutto, nevrotico e crudele com' è nevrotica e crudele Butterfly , tanto Hermanis rilancia il solito Puccini sentimentale, decorativo e piccoloborghese. La direzione è pucciniana, la regia puccinista.
Da vedere, il primo atto è quanto di più imbarazzante si sia visto da tempo: un concerto in costume sullo sfondo del Giappone più oleografico, da cartolina o da spot dell' ente del turismo per comitive in torpedone. Tutti in pose plastiche, come se non si stesse vendendo a un turista sessuale una ragazzina di 15 anni per cento yen (ebbene sì, la versione «originale» fornisce anche il prezzo).
Il secondo atto è meno rinunciatario, e almeno un paio di idee ci sono: lei che arreda la casetta e si veste all' occidentale, nel suo disperato autoinganno, perfino cucendo su una vecchia Singer a pedali, insomma come le nostre nonne non a caso pucciniane sfegatate, e il finale, con un suicidio per una volta ritualizzato, da tragedia greca. Più il solito sfarzo scaligero da grandi occasioni, con costumi elaboratissimi, trucco e parrucco da monumento in piazza, boschetto di ciliegi più vero del vero e via scialando.
Ma nel complesso è uno spettacolo nato vecchio. Come se il regista avesse paura di disturbare. Resta questo il grande problema della Scala. Il teatro è terrorizzato dai fischi, appeso all' approvazione di quattro loggionisti e altrettanti critici mummificati, quando invece il pubblico italiano ha sempre capito le cose prima degli altri, e la Scala è sempre stata non un teatro d' avanguardia, che non è il suo compito, ma all' avanguardia, sì. Adesso invece sperimenta e vince sul piano musicale, ma si rifugia nella «tradizione» paurosa su quello teatrale. Fra innovazione e conservazione, sceglie la seconda. Come nel Paese, anche alla Scala vince il «no».
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