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Federico Ercole per Dagospia
Il videogioco è quasi sempre una lezione sulla morte, non importa se si preme il tasto “continue” e ricominciamo nell’illusione di rivivere, una pietosa consolazione della modernità videoludica, perché un tempo si offriva una moneta al cabinato come a Caronte, per traghettarci ancora e ancora dalla realtà all’inferno elettronico della competizione “arcade”.
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Dopo ogni decesso virtuale si è comunque spalancato l’abisso del “game over”, la manifestazione del terrore di divenire nulla, uno spazio nero e misterioso che allude alla nostra fine e a quella dell’illusione numerica nella quale vivemmo mentre, più o meno veloci, piccoli ingranaggi elettronici non operano per la nostra resurrezione bensì ci riportano indietro, prima della morte, un’altra possibilità, perché è raro che nei videogiochi si eluda la morte, come ad esempio in Death Stranding, si tratta per lo più di riavvolgere i fili del tempo.
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Così è interessante quando il videogame utilizza come soggetto della sua narrazione principale il tema della dipartita o fa ipotesi, fantastica e specula su tematiche inerenti l’aldilà, perché sembra filosofare sul suo essere come spazio, tempo e possibilità, quindi il suo esistere, indagare su cosa succede in quella zona informe che si apre dopo l’estinzione.
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Ecco quindi il fiabesco Kena Bridge of Spirits per Playstation 4 e 5 (c’è anche per PC su Epic Store)che ci pone nel corpo di una fanciulla il cui obiettivo è trasfigurare quelle anime estinte che si rifiutano di compiere l’estremo trapasso, trasformandosi così in dolenti e pericolosi spettri, un po’ come quella tipologia di giocatore che non riesce a tollerare la sconfitta e si inasprisce, frustrandosi vieppiù, sullo stesso videogame infine odiandolo, odiandosi e odiandoci.
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UNA DOLOROSA TENEREZZA
Sviluppato da Ember Lab, uno studio californiano indipendente composto da quattordici persone alla loro opera prima nell’ambito dei videogame, Kena Bridge of Spirits è un gioco d’avventura in terza persona che trascorre come un film in “computer graphic” ma uno di quelli belli, alla Pixar, non come certe serie dozzinali per l’infanzia che si vedono in tv.
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Kena viaggia per il mondo incantevole di boschi, campi, acque e nevi che cinge un villaggio decaduto, spazi meravigliosi anche quando infestati dalla corruzione che sarà nostro compito depurare con l’aiuto di un manipolo crescente di un tenerissimo esercito di creaturine chiamate “rot” che ci seguono e collaborano come i vegetali Pikmin di Miyamoto, ma dal destino assai meno infausto.
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Dovremo redimere diversi spiriti inquieti le cui storie risultano davvero struggenti, ma raccontate con un senso di dolce elegia invece che con la gravità del patetico, così che il gioco non acquista mai un andamento disperato, anche laddove è più triste, ma speranzoso e consolatorio.
Secondo le regole tradizionali -quindi senza troppe innovazioni ma efficaci- del gioco dinamico d’avventura, Kena combatte con un bastone, un arco e delle bombe spirituali, esplora e risolve enigmi ambientali curiosi e non troppo ostici. Alle azioni della ragazza si unisce la truppa di “rot”, utile sia durante gli scontri che per la risoluzione degli enigmi, oltre che per dilettarci con uno squisito pigolio.
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Alcuni scontri, dipende dal livello di difficoltà comunque sempre modificabile, possono risultare più ostici, soprattutto quando ai “boss” si affiancano nemici comuni, ma risultano appaganti da giocare e spettacolari, grazie anche all’artistico disegno arboricolo e pietroso degli avversari.
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Possiamo migliorare le abilità della protagonista in maniera intuibile e immediata, come immediato e subito codificabile è tutto il gioco, che scorre fluido e mai tedioso, godibile ad ogni età per la sua ultraterrena e terrena poesia e per la bellezza degli scenari, che uniscono una naturalistica potenza biologica al trascendente del sovrannaturale.
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CONCISIONE ESEMPLARE
Ci vogliono circa una decina di ore per terminare Kena Bridge of Spirits correndo da una missione all’altra, il doppio se cerchiamo di trovare tutti i Rot (chi non vorrebbe?) nascosti nelle ambientazioni e ci fermiamo ad ammirare i preziosi panorami che si aprono durante il viaggio.
Proprio quando cominciamo a pensare che le poche e semplici dinamiche ludiche dell’opera di Ember Lab stiano diventando ripetitive ecco che giungiamo al finale, rivelandosi così un’esemplare concisione, nella quale nulla è a sproposito ma pensato invece per alimentare il giocare nel tempo necessario perché questo resti tale.
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Kena Bridge of Spirits è una fiaba incantevole e teneramente mesta, un quieto lago di colori nei quali trova riposo l’occhio fino a quando il pericolo non lo costringe a destarsi e, anche quando più convenzionale nei modi di farci giocare, ci diletta con la confortante poesia con la quale comunica il suo racconto e la sua visione ludica.
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Forse Kena alimenterà qualche lacrima, ma si tratta di una commozione che favorisce un sereno sorriso invece che la smorfia angosciata della tragedia, sussurrandoci, forse mentendo ma con compassionevole gentilezza, di non temere il nostro “game over” perché la morte è già nel terrore della fine.
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