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Federico Ercole per Dagospia
Esploriamo l’astronave mineraria USG Ishimura con la perizia e il terrore di chirurgi che muovono i loro strumenti per il corpo morto di un mostro lovecraftiano nell’esercizio di un’autopsia raccapricciante, perché lo spazio immenso e misterioso è fuori mentre noi ci muoviamo nel profondo, sempre più dentro salvo qualche rara escursione nel vuoto che permane comunque epidermica.
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L’orrore di Dead Space non è quindi psicanalitico come lo è quello di un Silent Hill ad esempio, la discesa scientifica e drammatica all’interno di una psiche con gravi patologie o traumi indicibili, è invece un “viaggio allucinante” horror nel cadavere di un leviatano dissennato e pericoloso, un’impresa che di rado muove la paura se non con i mezzi semplici del Luna Park e invece provoca ribrezzo, una repulsione che non nega tuttavia una continua tensione.
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Ma c’è una grandiosa poesia splatter in questa cupa fantascienza del disgusto, un’arte sopraffina nel comporre forme ributtanti e orchestrare ombre e luci inquietanti con un ossimorico realismo espressionista che risulta infine in un’esperienza che non si dimentica, che avvince e sgomenta.
Non è un caso che l’altra opera indimenticabile di Visceral Game fu Dante’s Inferno, un’altra discesa questa volta diabolica, dentro un Averno rappresentato in maniera organica e non metafisica. Tuttavia la compianta Visceral Game non esiste più, sciolta nel 2017 da Electronic Arts, e l’esule Glen Schofield, produttore esecutivo di Dead Space del 2008, ha realizzato il discusso, di certo discutibile, ma non fallimentare come lo si dipinge The Callisto Protocol per ribadire i fasti e la paternità di quell’indimenticata invenzione d’orrore sci-fi.
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Ecco dunque uscire pochi mesi dopo la nuova opera di Schofield il remake del “suo” Spazio Morto per PlayStation, Serie XBox e Pc realizzato da Electronic Arts, un’operazione che appariva quanto meno antipatica nei confronti della compianta Visceral Games ma che senza dubbio resuscita quel magnifico e orripilante mostro che è Dead Space in maniera egregia, quasi oscena nella sua sublimazione del passato, conservando, variando e laddove possibile migliorando.
TRA I NECROMORFI
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Nell’armatura vetusta e insieme avveniristica di Isaac Clarke (il nome deriva dai numi della fantascienza Asimov e Arthur C.) sbarchiamo sulla USG Ishimura, dove tra l’altro si trova la sua amata Nicole. Siamo sull’Ishimura per riparare dei guasti ma, dopo cinque minuti, realizziamo assieme ai suoi compagni, o ameno con quelli che sopravvivono, che a bordo della grande nave è successo qualcosa di terrificante. Comincia così un’avventura micidiale della sopravvivenza, tentando di evitare che l’Ishimura collassi su un asteroide, di scoprire cosa è avvenuto e nel frattempo di salvare Nicole che nel frattempo non è certo la “principessa in difficoltà” e si rivela più he utile.
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Agiamo con la ritmica lenta del “survival horror”, muovendoci per i settori infestati della nave, conservando le munizioni di armi che nel remake risultano assai più efficaci che nell’originale e qui inoltre si trovano esplorando, non acquistandole. Tutto è più “bello” e solo in parte per una questione di tecnologie avanzate, perché il lavoro sugli scenari è straordinario nel restituire una onnipresente incertezza, favorendo la comparsa di varie creature abominevoli che prima di mostrarsi si intravedono, accelerando i motivi di ansia.
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Nel gioco del 2008 i segmenti a gravità zero erano la cosiddetta “freccia nel tallone”, risultando macchinosi e ardui, qui scorrono in maniera credibile ed entusiasmante, in maniera più simile a Dead Space 2 del 2011. I modelli dei mostri sono ovviamente meno confusi e questi risultano più aggressivi, orrendamente umani nel movimento eppure ormai disumani, vari e ributtanti.
Il sonoro, già notevole nell’opera del 2008 (che risulta comunque imprescindibile) qui edifica un panorama sonoro che completa quello visivo con un’efficacia opprimente, soprattutto se esperito con gli auricolari, supportato da una colonna sonora sinfonica e rumorista, con fortissimi “cluster” improvvisi e accordi dissonanti, che non è mai invadente ma è anch’essa un propellente del disagio.
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AVANTI E INDIETRO PER L’ISHIMURA
L’originale Dead Space aveva una struttura lineare, nel remake invece cambia tutto il sistema di esplorazione perché qui ogni zona dell’Ishimura è interconnessa e possiamo tornare sui nostri passi, per aprire sezioni prima impossibili da esplorare o per trovarli mutati, più bui o intossicati, con nuovi nemici. Si tratta senza dubbio della novità più gradita, qualcosa che rende davvero l’esperienza più sofisticata e avventurosa.
Inoltre ci sono delle interessanti missioni secondarie, prima assenti del tutto. L’unica cosa che non risulta all’altezza di una simile produzione sono i modelli dei volti dei personaggi (tranne quello di Nicole, l’unico espressivo a parte quello mostruoso dei necromorfi), soprattutto quello del protagonista che per fortuna indossa quasi sempre l’elmo o casco che sia
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Già ostico nella sua modalità di gioco “normale”, a “difficile” il ramake di Dead Space risulta infernale ma a suo modo appagante; . c’è comunque una “rilassante” modalità “facile” per chi non ha voglia di stremarsi.
Il remake di Dead Space è quindi un’opera più che riuscita, un nuovo grande horror che si sovrappone al classico senza cancellarne la memoria e l’importanza sebbene forse ci abbia provato, a volere essere maligni. Imperdibile per chi ama pascersi nell’orripilante e per gli appassionati di una fantascienza che affonda nell’orrore e tratta temi pesanti e non con superficialità, come le derive imprevedibili del fanatismo religioso.
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Nell’attesa dei remake di Resident Evil 4, di Final Fantasy VII (la seconda parte) e di Silent Hill 2 è pertinente domandarsi se queste operazioni di rifacimento abbiano senso e non lo avrebbero, forse, se non uscissero nel frattempo tante cose nuove e diverse, soprattutto più “piccole” ma coraggiose. Se tutti i remake fossero come quello di Dead Space (o Resident Evil 2 e la prima puntata di Final Fantasy VII), allora un senso c’è, persino una necessità.
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