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    È INUTILE CONTINUARE A FARE GLI SNOB: ANCHE I VIDEOGIOCHI SONO ARTE! – A TORINO LA MOSTRA “PLAY - VIDEOGAME ARTE E OLTRE”, METTE INSIEME GIOCHI E ARTE - C'È KANDINSKIJ ACCANTO A DELLE SCHERMATE DI REZ, DUE DE CHIRICO ACCOSTATI A ICO, SVARIATI PIRANESI GIUSTAPPOSTI A MONUMENT VALLEY, IL GIOCO PREFERITO DI FRANK UNDERWOOD IN "HOUSE OF CARDS" – UN VIAGGIO NEL TEMPO DALLE “MACCHINETTE” DEI BAR ALLA REALTÀ VIRTUALE, PASSANDO PER…


     
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    Bruno Ruffilli per La Stampa

     

    Play - Videogame Arte e Oltre non è la solita mostra sui videogiochi. Intanto perché è allestita negli spazi della Venaria Reale, alle porte di Torino, e dunque le opere esposte all'interno dialogano con l'ambiente esterno: scorci di tetti, particolari architettonici, prospettive dello splendido giardino.

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    Poi perché, se pure volessimo considerarla una mostra d'arte tradizionale, presenta una ventina tra dipinti, litografie, tele di buon valore, in prestito da altri musei o collezioni private. E soprattutto perché, per una volta, mette insieme videogiochi e arte senza dover chiedere scusa né agli uni né all'altra.

     

    Nelle 12 sale della mostra allestita all'architetto Diego Giachello dell'Officina delle Idee, lo spirito non è quello tipicamente americano dell'esaltazione di tutto ciò che è contemporaneo, di una storia senza passato: è semmai quello di una convivenza finalmente pacifica tra forme di espressione per decenni separate se non contrapposte. 

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    Lo si comprende bene alla fine del percorso espositivo, dove viene ricostruita la penetrazione sociale dei videogame: confinati nelle sale da gioco agli inizi, poi destinati alle stanzette degli adolescenti (la PlayStation presente dimostra che siamo nel 1994, ma si potrebbe andare indietro fino a Pong), e infine al centro dell'intrattenimento familiare, con una Xbox che troneggia accanto alla tv in un ideale salotto medio borghese, qualsiasi cosa significhi nel 2022.

     

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    Il discorso è forse perfino più interessante dal punto di vista anagrafico: chi aveva 18 anni nel 1994 oggi ne ha 46, e se lavora in ambito artistico-culturale difficilmente avrà bisogno di essere convinto che i videogiochi possono essere una forma d'arte. Lo sa per averlo vissuto in prima persona: e in fondo Play ripercorre le tappe di una formazione culturale che è quella del curatore Fabio Viola (che di anni ne ha 47), game designer, docente, saggista, ma pure - necessariamente - di Guido Curto (classe 1955), direttore del Consorzio delle Residenze Reali Sabaude, che viene da studi classici.

     

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    Il racconto è dunque personale, però nel senso che ciascuno può trovare in Play un pezzo della sua identità culturale, che si rispecchi in Fifa, negli sparatutto, o in titoli più contemplativi come in The Last of Us, uno dei molti videogiochi che affrontano le tematiche di genere. Anzi, all'identità (e non solo di genere) è dedicata una sezione intera, che illustra come si vedono i giocatori in quanto protagonisti delle loro avventure videoludiche.

    Così Play è una riflessione su quanto e come i videogiochi siano parte della cultura e della vita di oggi, rivolta tanto al visitatore smaliziato quanto al turista che alla Venaria viene per ammirare la Galleria di Diana.

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    Il primo livello di lettura, il più ovvio, è il rapporto con l'arte (la sezione è infatti intitolata Art Play): c'è Kandinskij accanto a delle schermate di Rez, due De Chirico accostati a Ico, svariati Piranesi giustapposti a Monument Valley, il gioco preferito di Frank Underwood in House Of Cards. La scelta è interessante, perché il titolo è dichiaratamente ispirato a Escher, ma la difficoltà di reperire le opere originali ha spinto i curatori a volgere lo sguardo più indietro nel tempo, aprendo un ulteriore livello di lettura. 

     

    Azzeccato il parallelismo tra Calder e Gris, ma anche in questo caso sarebbe stato possibile allargare lo sguardo (a Mirò, ad esempio). E Hokousai è una chiara ispirazione per il linguaggio visivo di Okami, videogioco per PlayStation che racconta la lotta tra il bene e il male in un medioevo giapponese idealizzato: è stato pubblicato 172 anni dopo La Grande Onda.

     

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    La mostra esplora anche il percorso inverso, ossia l'arte che si ispira ai videogame, e lo fa in una sezione intitolata Play Art. I confini stavolta sono più sfumati, anche perché il mezzo di espressione talvolta è lo stesso, come in Free to Play di Tabor Orbak, costruito come un ipertrofico Candy Crash Saga. Tutto di pixel è anche The Night Journey di Bill Viola, dove lo spettatore (che qui è un giocatore) può perdersi e ritrovarsi nelle immagini oniriche del maestro della videoarte americano. 

     

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    Dopo le anteprime in vari musei del mondo, dal 2018 è un gioco per PS4, pc e Mac; un'opera d'arte che si può avere con soli 9,99 dollari. I videogiochi sono espressione della cultura pop, opere d'arte globali e interattive che arrivano a mezzo mondo: si calcola infatti che i giocatori a livello globale siano oltre 3 miliardi. Così ovviamente c'è spazio per Andy Warhol e la sua instancabile trasfigurazione del banale in arte, a partire dai fiori disegnati in 8 bit con il computer Amiga. 

     

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    A volte il digitale esce dagli schermi, come con il Banksy (apocrifo, ma che fa), dove il lanciatore non ha un mazzo di fiori in mano ma la palla dei Pokémon. E ancora: guerrieri alieni di Half-Life che diventano statue dorate ad opera del collettivo russo AES+F, in un vortice di citazioni, da Jeff Koons al David di Donatello. Infine, a chiudere il cerchio, c'è la riscoperta dell'aura di Walter Benjamin, con l'Nft dell'italiano Federico Clapis (Digital Growth Flooded), che pare ripreso da Death Stranding. 

     

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    È un'opera unica, pur essendo interamente digitale, e dunque per definizione replicabile in infinite copie identiche all'originale. Come i videogiochi appunto. Tra le molte prospettive che Play analizza c'è quella del videogame come mestiere. La sala dedicata è un po' il riflesso simmetrico di quella iniziale, ma qui la mitologia di Super Mario, Lara Croft, Ezio Auditore, Nathan Drake viene analizzata dietro le quinte: sono esposti interi computer con spezzoni e prove, sceneggiature, colonne sonore, tavole, per mostrare come sia complicato e affascinante il processo da cui nascono i videogiochi. 

     

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    E per dare un nome e un volto ai loro autori, come si fa per gli artisti. Play (aperta fino al 25 gennaio 2023) si inserisce in una serie di manifestazioni nell'anno che la Reggia di Venaria ha dedicato al gioco, che viene raccontato pure da altre mostre, come quella dedicata alla fotografia o quella che illustra il mondo degli artisti itineranti, con la guida spirituale di Arturo Brachetti. 

     

    E se in italiano il collegamento pare bizzarro, in inglese play, oltre che per «giocare», sta per «rappresentazione teatrale», come pure per «suonare». Nei weekend si può suonare davvero: una grande tastiera digitale nel cortile permette a tutti di interagire con una colonna sonora pop-elettronica abbinata a effetti di luce, trasformando la facciata dell'edificio settecentesco in un gigantesco monitor dove esplodono le forme e i colori del più improbabile dei videogiochi.

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