Emiliano Fittipaldi per “l'Espresso”
Si chiama Piero Amara, ha 48 anni, uno studio legale ben avviato con sedi a Roma e Dubai, un mucchio di magistrati importanti come amici, un po’ di politici di destra e sinistra che lo stimano, ed è certamente l’uomo del momento. Almeno per le procure di mezza Italia, da Milano a Messina passando per Roma e Palermo, che se lo litigano per reati assortiti, e che credono che l’avvocato siciliano con natali ad Augusta non sia affatto un semplice collaboratore legale dell’Eni, ma il perno di un sistema di relazioni tra imprenditori e giudici compiacenti, o - per dirla meglio, tra consiglieri di Stato e aziende che partecipano agli appalti pubblici milionari.
Un “facilitatore” di grande potere, inserito nei board di associazioni dove sono seduti spalla a spalla avvocati e togati, di fare affari con impresari vicini al governo, di creare “cartiere” - questa una delle ipotesi d’accusa - per false fatturazioni, di costruire falsi dossier per distruggere manager pubblici e ostacolare processi penali in corso.
«Leggende metropolitane», dice Amara scuotendo il capo. «Sono solo un avvocato di provincia che ha avuto un po’ di successo e che ora lobby oscure vogliono mettere in difficoltà. Non ho nulla da nascondere. E uscirò pulito anche da questa buriana. Come diceva mio nonno, che faceva il contadino, “male non fare paura non avere”».
Partiamo dall’inizio. Se l’avo coltivava la terra, il papà di Piero, Giuseppe Amara, ha scelto un’altra strada. Quella della politica. “Pippo”, così lo chiamano gli amici, geologo per diletto e professore di matematica e fisica, sui campi non mette mai piede, preferendo megafoni in piazza e salette di partito. Giuseppe è ambizioso e capace, e già negli anni ’80 riesce a diventare un pezzo grosso del partito socialista della sua città, diventando anche presidente del consorzio Asi (area di sviluppo industriale) della zona, dove insistono da sempre importanti aziende della chimica e del petrolio.
Ad Augusta la sua influenza dura lustri, nonostante gli alti e bassi che accomuna i destini di molti dirigenti del pentapartito della prima Repubblica: finito in 18 diversi procedimenti penali per abuso di atti d’ufficio, truffa, usura, papà Amara (tranne in un caso, per cui è stato condannato in via definitiva per minacce a un pubblico ufficiale) ne è però sempre uscito alla grande, tra archiviazioni, assoluzioni o prescrizioni.
eni gela
A Siracusa si narra che sia stato lui a spiegare al giovane Piero quanto importante fosse, per un politico, avere buone relazioni con i magistrati della procura. Il rampollo prediletto, accento siciliano marcato ma eloquio fluente (la madre è stata professoressa di italiano alle medie), fa il liceo classico in paese e poi si iscrive a giurisprudenza a Catania, dove diventa allievo prediletto del professore Giovanni Grasso. Un luminare di diritto penale. Amara comincia a fare l’avvocato proprio nel suo studio, e poi, grazie al rapporto tra Grasso e un altro docente di fama come Federico Stella (storico avvocato dell’Eni), nel 2002 ha l’occasione della vita, e comincia a lavorare per il Cane a Sei Zampe.
Per il nostro colosso energetico Amara junior si specializza in diritto ambientale, e difende la multinazionale nei tanti processi per inquinamento e avvelenamento in cui è chiamata in giudizio, in primis per i disastri causati dai petrolchimici di Siracusa e di Gela. «Ho una percentuale di successo del 100 per cento», spiega Piero fiero agli amici. In effetti Amara ne vince tanti, di processi. Talmente tanti che qualcuno, malignamente, comincia a pensare che le statistiche non possano essere genuine e solo farina del suo sacco, ma figlie di rapporti privilegiati tra l’avvocato e qualche giudice inquirente.
Così nel 2012 il ministero di Grazia e Giustizia manda gli ispettori alla procura di Siracusa, per indagare, in particolare, sull’operato dei pm Maurizio Musco e dei procuratori capo Roberto Campisi e Ugo Rossi. Anche se i vigilanti spiegano di non aver riscontrato «anomalie o irregolarità in ordine alla gestione delle indagini e alla definizione del procedimento», il Csm - su richiesta del ministero - spedisce d’ufficio Rossi e Musco lontano da Siracusa. Non solo.
Procura Siracusa
I miasmi della procura aretusea si trasformano in esposti incrociati tra gruppi di avvocati e magistrati l’un l’altro contrapposti, che finiscono in un fascicolo penale della procura di Messina. Alla fine le condanne sono pesanti. A febbraio 2017 la Cassazione ha confermato in via definitiva quelle contro i pm Rossi e Musco.
Quest’ultimo si è beccato un anno e sei mesi per abuso d’ufficio perché non s’è astenuto durante una vicenda giudiziaria che riguardava l’iter di approvazione della piattaforma Oikoten. Vicenda in cui era coinvolto - come legale interessato - proprio Amara. Di cui Musco era molto amico, tanto da avere consuetudini e alcuni rapporti economici (l’affitto di un locale per una società di cui il magistrato era titolare).
«Una vicenda bagatellare, mi dispiace per il povero Musco, sulla storia di Oikoten ci sarebbe ben altro su cui indagare», protesta Piero che ci tiene a sottolineare di non aver mai abbandonato un amico in vita sua. Nemmeno Alessandro Ferraro, l’imprenditore con cui oggi è indagato a Milano per associazione a delinquere per depistaggio. L’accusa dei magistrati meneghini è grave: Amara e Ferraro (detto dai nemici “Sandro Napoli” per via delle sue origini campane), insieme al tecnico del settore Oil&Gas Massimo Gaboardi, avrebbero costruito infatti un falso dossier sull’esistenza di un fantomatico complotto contro l’Eni, e in particolare contro il suo amministratore Claudio De Scalzi.
LUIGI ZINGALES
Un inganno costruito con esposti anonimi e con dichiarazioni firmate di Gaboardi, spediti prima alla procura di Trani che li ha poi trasmessi a Siracusa. Il dossier, ipotizzano ora gli inquirenti, se da un lato mirava a screditare gli ex consiglieri dell’Eni Luigi Zingales e Karina Litvack (secondo i falsi documenti sarebbero stati loro, insieme a fantomatiche spie nigeriane e imprenditori iraniani, a voler far dimettere De Scalzi a favore del capo di Saipem Umberto Vergine), dall’altro voleva intralciare proprio le delicate inchieste su Eni della procura di Milano. Quelle, per intenderci, condotte da anni dal pm Fabio De Pasquale, che ha indagato De Scalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni per alcune presunte tangenti milionarie versate in Nigeria.
Ecco: Amara junior sarebbe il regista e la mente dell’intera operazione, mentre Gaboardi e Ferraro gli esecutori materiali della spy-story inventata di sana pianta. Ferraro, sentito da L’Espresso, nega con forza ogni addebito. «Secondo la procura avrei consegnato assegni da migliaia di euro a Gaboardi per spingerlo a fare false dichiarazioni ai pm di Siracusa, come Giancarlo Longo. Ma in realtà sono io che ho ricevuto soldi da Gaboardi che mi ha pagato per alcuni lavori svolti da mie società», ragiona l’imprenditore, che ammette di conoscere da tempo Gaboardi perché «mio socio in alcune aziende del settore petrolifero in Romania».
claudio descalzi
Amara già in passato era finito nei guai della giustizia per alcune testimonianze rilasciate dall’amico Ferraro davanti ai magistrati della procura siciliana, in merito a un presunto giro di calcio-scommesse messo in piedi da calciatori del Catania. “Sandro” e Piero (che allora era il legale del presidente del Catania Antonino Pulvirenti, che qualche hanno dopo è stato accusato di aver comprato lui stesso partite in serie B) indagati “in concorso”, furono poi assolti da ogni accusa.
Amara a chi gli fa notare il lungo elenco delle sue traversie ci tiene a evidenziare che, nei vari processi in cui è finito, non ha mai preso una condanna. Almeno finora. Anche un patteggiamento a 11 mesi di carcere per accesso abusivo a un sistema informatico per carpire notizie segrete dalla Dda di Catania, in effetti, si è «estinto» nel 2014, con la «cessazione degli effetti penali» del reato. E i rapporti con Ferraro? «È un amico, ma non ha nessun legame con il mio studio professionale. È da almeno vent’anni anni, ne sono sicuro, ha improntato la sua vita al rigido rispetto della legalità».
Il casellario giudiziario, però, disegna una giovinezza (e pure un presente) quanto meno turbolento: se a 19 anni Ferraro è finito in carcere per ricettazione di documenti falsi («quelle carte d’identità non erano mie, ma di un ragazzo minorenne mio amico: mi sono preso la colpa, noi meridionali siamo fatti così», ci spiega), nel 2004 “Sandro Napoli” è diventato definitivamente leggenda tra i compaesani per aver osato sfidare, dal suo piccolo concessionario di Catania, nientemeno che la Bmw di Monaco di Baviera. «È stato come Davide contro Golia», esultano ancora quelli che vogliono bene all’imprenditore.
Descalzi Scaroni
Forse esagerano. Di sicuro, dopo aver aperto due rivenditori di moto Bmw a cavallo dei due millenni, e in seguito a inconciliabili divergenze economiche con il colosso tedesco, Ferraro prima tenta le vie legali, poi delibera («colpa del mio cattivo carattere») di passare alle maniere forti. Così “sequestra” 600 motociclette e le nasconde nelle campagne e nei garage intorno la città.
«In realtà nessuno sa dove le ho messe. Non ho minacciato di bruciarne una al giorno finché la Bmw non mi dava quello che mi spettava, come invece le hanno raccontato. Le ho semplicemente fatte sparire» ricorda l’imprenditore contattato al telefono. «Le ho nascoste bene però. La Finanza ne ha trovate solo una novantina, dopo mesi e mesi di appostamenti. Lo sa, noi meridionali abbiamo una marcia in più...».
Ferraro riuscì nell’impresa che nemmeno il mago Houdini mentre era latitante: un giudice l’aveva, guarda un po’, accusato di estorsione. «Un altro pm catanese capì invece che stavo solo tentando di esercitare le mie ragioni. Forse esagerando, ma non ero certo io ad essere dalla parte del torto. Alla fine ho transato, ho restituito le moto e ottenuto ciò che mi spettava dalla Bmw, che ha ritirato le denunce. Spero comunque che queste vecchie storie non inducano i pm milanesi a pensare male di me. I miei conti con la giustizia li ho già saldati».
andrea bacci1
Se i magistrati meneghini stanno cercando di capire se per la faccenda del dossier Eni ci fu depistaggio o meno, e se i pm di Messina stanno analizzando i rapporti tra Amara e altri colleghi della procura di Siracusa (tra loro ci sarebbe proprio Giancarlo Longo, che lo scorso giugno, poco dopo l’apertura da parte del Csm di una procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità, ha chiesto di essere mandato via: ora è a Napoli), un pool di magistrati di Roma ha messo nel mirino l’avvocato di Augusta per i suoi rapporti con alcuni giudici amministrativi del Consiglio di Stato. In particolare le relazioni con Nicola Russo, di cui Amara è difensore in un procedimento penale assai delicato, e con l’ex presidente di sezione Riccardo Virgilio, che con il legale dell’Eni ha fatto qualche affare curioso.
Già: come rivelato qualche mese fa dall’Espresso Virgilio e Amara, insieme all’imprenditore Andrea Bacci, caro amico di Matteo Renzi e del ministro dello Sport Luca Lotti, hanno provato ad entrare nel business telefonico. Virgilio nel 2014 ha finanziato una società maltese per oltre 750 mila euro, e ha firmato un contratto di finanziamento che gli garantirebbe un diritto di opzione per il controllo delle quote di Teletouch. Una società tra i cui soci compaiono Amara e lo stesso Bacci, e che aveva firmato un memorandum non vincolante addirittura con Telecom Italia.
FRANCESCO SAVERIO ROMANO
Amara, grande amico dell’ex ministro Francesco Saverio Romano, e di politici come gli ex presidenti della Regione Sicilia Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo, sottolinea che i legami economici con Virgilio sono «limpidi», e che non ci sono «mai stati conflitti di interesse nelle vertenze al Consiglio di Stato per i miei clienti. In primis con quelle che riguardano le imprese di Ezio Bigotti».
L’avvocato non fa un nome a caso: Bigotti, infatti, è uno dei suoi clienti più in vista. Un imprenditore diventato famoso (suo malgrado) dopo il caso Consip: Alfredo Romeo, grande imputato dello scandalo, lo considerava - intercettazioni alla mano - il suo grande avversario nell’appalto da 2,7 miliardi per i servizi dei palazzi della pubblica amministrazione.
Originario di Pinerolo, recordman dei contenziosi ai Tar e al Consiglio di Stato, insieme ad Amara e al senatore di Ala Denis Verdini, Bigotti - ha raccontato l’ex ad di Consip Luigi Marroni - qualche mese fa in un pranzo al ristorante “Al Moro” di Roma protestava contro «l’atteggiamento aggressivo» della stazione appaltante nei confronti delle sue società. «Volevo solo» ha specificato in un esposto lo stesso Bigotti «parlare a Marroni di taluni gravi vicende» che riguardavano Alberto Bianchi. Un avvocato consulente della Consip celebre per essere presidente della Fondazione Open, la cassaforte del neo segretario del Pd Matteo Renzi, e uno dei capi del Giglio Magico.
EZIO BIGOTTI
«Bianchi era, in quanto legale Consip, in un caso controinteressato avverso la impugnazione di una gara Consip aggiudicata a Siram; ciò non di meno e al contempo Bianchi era, in numerosissime cause amministrative anche presso il Consiglio di Stato, l’avvocato che assisteva e patrocinava proprio la Siram» chiarisce l’imprenditore di Pinerolo. «Marroni reagì molto male, negando la circostanza. Aggiunse pure che qualora fosse stata vera, sarebbe stato gravissimo».
Quello che Bigotti non spiega è che Siram combatte contro di lui, da anni, una battaglia legale durissima nei Tar e nel Consiglio di Stato. In ballo c’è un presunto “scippo” delle Soa, cioè le certificazioni obbligatorie senza le quali un’azienda non può partecipare a gare d’appalto per l’esecuzione di appalti pubblici. Documenti che le aziende di Bigotti hanno ottenuto attraverso la cessione di un ramo d’azienda di Siram. Che ora sta tentando disperatamente di riottenerle indietro.
Ad oggi, se i pm romani hanno mandato la Finanza a perquisire sia le aziende di Bigotti sia di altri concorrenti della gara FM4 (tra cui i francesi di Cofely, secondo Marroni «molto vicini» a Denis Verdini), è un fatto che Piero ed Ezio siano stati indagati insieme per alcuni reati tributari. Insieme al solito Ferraro, al socio di Amara Giuseppe Calafiore, e all’imprenditore Fabrizio Centofanti, sodale dell’avvocato siracusano in alcuni impianti fotovoltaici nel Lazio. La società che avrebbe emesso fatture false per operazioni inesistenti si chiama Da.Gi srl ed è intestata alla moglie di Amara; le società di Bigotti avrebbero ricevuto dalla stessa Da.Gi fatture false per oltre un milione di euro.
d anna verdini
A che servivano queste operazioni? «Lei dice che qualcuno potrebbe pensare che si tratti di somme destinate a creare fondi neri? Si sbaglia. È tutto regolare, riuscirò a dimostrarlo. Vuole sapere perché Bigotti, che è di Pinerolo, ha spostato a Siracusa la sede legale delle sue società?
Guardi, le dico senza problemi che gliel’ho suggerito io stesso. Era da tempo sotto tiro per vicende tributarie da alcuni magistrati di Torino, e visto che la legge non impedisce spostamenti di questo tipo, ho pensato che Siracusa potesse essere - per le dichiarazioni fiscali del futuro, naturalmente - una sede più serena, senza preconcetti». Di sicuro un luogo dove gli Amara, da due generazioni, hanno tanti amici. E, forse, pure qualche santo in paradiso.
QUEL BONIFICO DA PALAZZO SPADA…
Emiliano Fittipaldi e Nello Trocchia (estratto de L'Espresso del 15 maggio 2017)
(…) Un altro avvocato finito nel mirino dei magistrati romani si chiama Piero Amara. Un legale di Siracusa molto conosciuto in Sicilia e a Roma, e accusato, qualche giorno fa, di frode fiscale e false fatturazioni insieme a Fabrizio Centofanti (l’ex capo delle relazioni istituzionali di Francesco Bellavista Caltagirone spiega all’Espresso di non voler fare commenti, sottolineando che «la mia azienda ha una struttura industriale reale e solida, e non ha certo bisogno di truccare i conti») e una ventina di altri indagati.
Riccardo Virgilio con Mattarella
Durante le perquisizioni della società Dagi srl, nella stanza in uso ad Amara sono stati trovati anche documenti finanziari e investimenti di un pezzo da novanta di Palazzo Spada. Il suo nome è Riccardo Virgilio, ed è stato fino a un anno fa presidente (facente funzioni) del Consiglio di Stato. Alessandro Pajno, il nuovo numero uno di Palazzo Spada vicinissimo al capo dello Stato Sergio Mattarella, lo ha sostituito nel febbraio del 2016.
Le carte trovate nello studio di Amara, indagato anche per associazione a delinquere, raccontano alcune operazioni finanziarie di Virgilio. Che all’Espresso risulta non solo essere stato titolare di un conto in Svizzera aperto agli inizi degli anni Novanta al Credito Svizzero, ma anche di aver investito oltre 750 mila euro cash in una società maltese, la Investment Eleven Ltd, i cui soci sono schermati da un’altra fiduciaria.
MATTEO E TIZIANO RENZI
Un contratto di finanziamento firmato il 4 novembre 2014 garantirebbe al consigliere di Stato un diritto di opzione per il controllo di quote della Teletouch. Una società di cui è socio lo stesso Amara, due cittadini svizzeri e l’imprenditore Andrea Bacci. Quest’ultimo è un caro amico di Matteo Renzi e in passato socio d’affari del padre Tiziano. Qualche mese fa è stato in predicato - secondo alcuni quotidiani - di diventare amministratore delegato di Telecom Sparkle. Poi, Bacci è finito nuovamente sui giornali lo scorso fine gennaio perché qualcuno ha sparato alcuni colpi di pistola prima contro la sua auto parcheggiata, poi contro l’insegna di una delle sue ditte. Un messaggio che ancora non ha un mittente: gli inquirenti fiorentini indagano per scoprirlo.
Spulciando i documenti della camera di commercio maltese, dove è conservato un verbale del 13 marzo 2017 della Investment Eleven, si legge chiaro e tondo che per finanziare l’operazione Teletouch (che dovrebbe garantire addirittura «un ritorno del 50 per cento l’anno», grazie anche a un memorandum d’intesa non vincolante con Telecom Italia firmato nel 2015 teso «a sviluppare la tecnologia N-Touch») e altri business legati al commercio del petrolio e del gas con Dubai (attraverso altre due società di Amara e del suo socio Giuseppe Calafiore), «la società ha sviluppato un accordo con il signor Riccardo Virgilio».
andrea bacci
Amara, sentito dall’Espresso, è categorico. «L’operazione è stata tutta tracciata. Il presidente Virgilio ha fatto un bonifico con nome e cognome. Ha messo anche la causale: “finanziamento socio”» ragiona l’avvocato. «Il suo conto corrente in Svizzera è stato aperto nel lontano 1993, ed è collegato a suoi risparmi e a un’eredità, quella di una sua zia molto ricca. E le ricordo che Malta, non è più un paradiso fiscale da un pezzo. Insomma, è tutto regolare».
Ma perché l’ex presidente della Cassazione avrebbe dovuto investire in una tecnologia mai sentita? «Guardi, la N-Touch, inventata da un ingegnere geniale, è basata su un microchip interno al cellulare, che permetterebbe agli utenti di godere di una straordinaria realtà aumentata. Ho consigliato io il presidente di investire nel business. La Telecom era impazzita quando noi, con la Teletouch srl, abbiamo firmato il memorandum con loro. Temo però che adesso l’operazione rischi di saltare, dopo che i giornali hanno parlato di Bacci come possibile amministratore delegato di Telecom Sparkle».
Virgilio risulta anche sottoscrittore di una polizza sulla vita con la Credit Suisse Life (Bermuda) ltd, la società del colosso svizzero che è stata indagata dalla procura di Milano con l’accusa di aver aiutato migliaia di presunti evasori fiscali attraverso polizze vita fasulle.
luigi marroni
Leggendo il verbale della Investment dello scorso marzo, si scopre che i fondi investiti sono proprio «parte di una assicurazione sulla vita aperta nel 2006» dal giudice. Amara ci tiene a spiegare anche questo passaggio: «Le somme contenute nel conto furono trasformate in polizza vita nel 2005. Nel 2014 il presidente ha liquidato la polizza e investito nella Investment. Chi c’è dietro la Investment? Solo io e il mio socio Giuseppe Calafiore». Anche lui, per la cronaca, indagato per associazione a delinquere.
Amara è il legale del presidente Virgilio anche in altre operazioni finanziarie (ha gestito un contenzioso sull’eredità della zia tra il magistrato suo cliente e altri eredi, che per chiudere la partita hanno deciso di donare alla famiglia Virgilio un appartamento ai Parioli del valore di circa 800 mila euro), ma soprattutto è un professionista esperto che, al Consiglio di Stato, si muove come un pesce nell’acqua.
Tra i tanti clienti importanti, Amara è anche il legale di un imprenditore poco conosciuto dall’opinione pubblica, ma di recente assurto all’onore delle cronache per il caso Consip. Ezio Bigotti, fondatore del Gruppo Sti a soli 29 anni, console onorario del Kazakistan, come raccontato dall’Espresso un mese fa è infatti - intercettazioni alla mano - il vero nemico giurato di Romeo: che ripeteva ai suoi fedelissimi, prima di essere arrestato per corruzione, come proprio Bigotti sarebbe diventato in pochi anni il dominus di un sistema di potere in grado di fare il bello e il cattivo tempo nella Consip. Più forte rispetto a quello messo in piedi dallo stesso Romeo.
Un uomo, Bigotti, vicinissimo a deputati importanti di Ala come Denis Verdini, Ignazio Abbrignani e Saverio Romano, e capace, secondo un esposto mandato sempre da Romeo alla Consip e all’Anac di Raffaele Cantone, di organizzare «cartelli» per vincere appalti insieme alle cooperative rosse e altri partner importanti, come i francesi di Engie Servizi (l’ex Cofely, i finanziari hanno fatto perquisizioni anche nella loro sede), e di riuscire a battagliare come pochi sia nei Tar che al Consiglio di Stato.
ezio bigotti
«È vero», sostiene l’avvocato Amara, «che sono legato a Bigotti, tra l’altro abbiamo vinto da poco un processo a Torino in cui lui era stato ingiustamente accusato di millantato credito. Ma ci tengo a sottolineare che io non ho seguito Ezio nelle cause al Consiglio di Stato, né contro Romeo né contro la società Siram. Il presidente Virgilio è stato presidente della quarta sezione, ma con lui nei collegi Bigotti qualche volta ha vinto, molte altre - soprattutto contro Romeo - ha perso. Soprattutto io, da quando sono entrato in affari con Virgilio, ho evitato di incrociarmi con lui in un’aula di giustizia».
È un fatto che anche Bigotti, che gestisce servizi di vario tipo nei palazzi della pubblica amministrazione in una decina di regioni italiane, sia però finito nel mirino della procura di Roma. Che prima ha perquisito la Consip prendendo tutte le carte delle gare miliardarie degli ultimi anni, poi ha mandato la Finanza a perquisire direttamente le sue aziende.
Gli inquirenti hanno trovato una serie di fatture emesse dalla Dagi di Piero Amara a favore della Sti spa di Bigotti, per oltre un milione di euro. Anche la Exitone, sempre controllata da Bigotti, ha rapporti di fatturazione dubbia con Amara per, a detta degli investigatori, centinaia di migliaia di euro. Anche Bigotti è stato iscritto nel registro degli indagati.
Bigotti, la cui holding è controllata dalla lussemburghese lady Mary II (schermata a sua volta da altre due fiduciarie del Granducato), è considerato da chi lo conosce bene il miglior “architetto” di gare pubbliche in circolazione, capace di allearsi con imprese molto più grandi delle sue e di fare man bassa, grazie ad abilità fuori dal comune, di gare milionarie.
ABRIGNANI
Ma Bigotti sembra anche un campione di ricorsi al Consiglio di Stato. In un’intercettazione del Noe ne parla anche l’ad di Consip Marroni insieme a due suoi collaboratori. È il 24 ottobre 2016 e il giorno dopo Marroni ha in agenda un incontro con Bigotti, che sarà accompagnato dall’avvocato Amara e da Verdini. Location: il ristorante “Al Moro”, nel centro di Roma.
Marco Gasparri (il dirigente che poi accuserà Romeo di avergli pagato mazzette per 100 mila euro) è nella stanza di Marroni. I due discutono di quale sia la migliore strategia per convincere Bigotti a smettere di fare ricorsi a catena in caso di sconfitta a una gara della stazione appaltante.
«Gasparri dice che Marroni deve chiedergli di non ricorrere più alla giustizia amministrativa in quanto i continui contenziosi rallentano gli affidamenti delle commesse anche di anni», appuntano i carabinieri del Noe che li stanno ascoltando con le cimici: «E di rappresentargli che la sua azienda riesce ad aggiudicarsi una buona fetta dei bandi anche senza ricorsi». A quel punto interviene l’altro dirigente presente, Martina Benvenuti, sottolineando «che molto probabilmente ci sono diversi filoni d’indagine da parte della magistratura che possono interessare la questione Bigotti».
ALBERTO BIANCHI
Il giorno dopo, davanti a un’amatriciana, secondo la testimonianza giurata di Marroni, Bigotti si lamentò «dell’atteggiamento aggressivo» di Consip nei confronti delle sue società. Qualche giorno fa, invece, Bigotti - in un esposto mandato alla procura di Roma per chiarire il contenuto della conversazione al Moro - ha spiegato che volle quel colloquio solo per parlare «di taluni gravi vicende» che riguardavano Alberto Bianchi. Un avvocato consulente della Consip famoso per essere presidente della Fondazione Open, la cassaforte del neo segretario del Pd Matteo Renzi, e uno dei capi del Giglio Magico.
«Desideravo che l’ad Maroni fosse informato della incredibile situazione rappresentata dal ruolo svolto dall’avvocato Bianchi. Questi era, in quanto legale Consip, in un caso controinteressato avverso la impugnazione di una gara Consip aggiudicata a Siram; ciò non di meno e al contempo Bianchi era, in numerosissime cause amministrative anche presso il Consiglio di Stato, l’avvocato che assisteva e patrocinava proprio la Siram. Marroni reagì molto male, negando la circostanza. Aggiunse pure che qualora fosse stata vera, sarebbe stato gravissimo».
descalzi
Non sappiamo se l’ad di Consip abbia espresso remore. Di certo Bianchi, all’Espresso, spiega che il presunto conflitto di interessi con Siram è del tutto inesistente: «È solo una “coincidenza” di interessi: Siram difendendo se stessa difendeva infatti le ragioni di Consip (che aveva assegnato proprio a Siram la gara, ndr), dalla quale avevo oltretutto ottenuto l’ok a difendere Siram. Non ho ovviamente mai assunto la difesa di clienti in conflitto con Consip».
Bianchi è titolare di uno degli studi amministrativisti più importanti del paese. Primeggia con quello di Vinti, con quello del potente avvocato Angelo Clarizia, con Gianluigi Pellegrino e con il professor Federico Tedeschini.
Anche Amara, seppur meno blasonato, è molto conosciuto al Consiglio di Stato. L’avvocato di Siracusa (dove la Exitone di Bigotti, autore di molti ricorsi, ha da poco deciso di spostare la sua sede legale) in passato è stato chiacchierato per suoi rapporti considerati troppo stretti con giudici amministrativi siciliani e pm della città aretusea, come Maurizio Musco (condannato di recente dalla Cassazione per abuso d’ufficio) e Giancarlo Longo, sul quale - si legge sulla Gazzetta del Mezzogiorno - sta indagando la procura di Messina, a causa di un presunto comitato d’affari denunciato da alcuni colleghi di Longo. «Sono al centro di un complotto», ha replicato il magistrato che ha indagato di recente su una presunta macchinazione internazionale ai danni dell’ad dell’Eni, Claudio De Scalzi, basata su alcuni anonimi rivelatisi poi privi di riscontri.
NICOLA RUSSO
L’inchiesta sulla giustizia amministrativa e i sospetti di sentenze «oggetto di mercimonio», però, non è cominciata oggi. Ma dura da anni. Il via l’hanno dato alcuni esposti arrivati ai pm romani, e ha trovato un primo snodo importante lo scorso luglio, con le prime perquisizioni dell’indagine chiamata “Labirinto”. A luglio 2016 il consigliere di Stato Nicola Russo, mentre era membro di una Commissione tributaria, è stato indagato per divulgazione del segreto d’ufficio e/o corruzione in atti giudiziari: secondo l’accusa avrebbe aiutato l’amico Stefano Ricucci a vincere una causa da 20 milioni con l’Agenzia delle Entrate.
La procura ha chiesto la sospensione del consigliere dagli incarichi giuridici, ma sia il gip (che non vedeva prove schiaccianti per dimostrare l’accordo corruttivo) sia la Cassazione hanno bocciato la richiesta. In attesa della richiesta o meno di rinvio a giudizio, Russo oggi lavora alla sede palermitana del Consiglio di Stato.
ARRESTO DI STEFANO RICUCCI
In un altro filone dell’indagine i pm stanno cercando di capire se ci sia stata una fabbrica di sentenze messa in piedi da un altro gruppo di potere. Nella rete degli investigatori sono finiti il deputato Antonio Marotta, il faccendiere Raffaele Pizza e il funzionario di Palazzo Chigi Renato Mazzocchi. Quest’ultimo è stato indagato per riciclaggio perché conservava in casa, in mezzo a una confezione di spumante Ferrari, 247 mila euro in contanti. Tra libri e bottiglie di vino sono stati trovati anche alcuni elenchi con nomi di giudici del tribunale ordinario, avvocati e magistrati amministrativi, oltre a sentenze del Tar e del Consiglio di Stato.
Una di queste, in particolare, suscita da mesi l’interesse degli investigatori: quella del 2015 che ha restituito a Silvio Berlusconi le azioni di Mediolanum, che Bankitalia, in virtù della condanna definitiva subita dall’ex premier, e il Tar avevano imposto di cedere. Sulla fotocopia della sentenza di Palazzo Spada conservata da Mazzocchi e forse scaricata da Internet, c’era un appunto manoscritto che segnalava presunti incontri tra legali di B. e persone dentro il Consiglio di Stato.
CONSIGLIO DI STATO PALAZZO SPADA
Per la cronaca, a presiedere il collegio giudicante era il presidente di sezione Francesco Caringella (che in una lettera al “Corriere della Sera” ha rifiutato con forza qualsiasi insinuazione), mentre relatore della sentenza è stato Roberto Giovagnoli, un giovane magistrato attaccato anni fa da un altro giudice, Alessio Liberati, per aver vinto il concorso «senza i titoli necessari». Mazzocchi, quando a luglio 2016 i finanzieri gli piombarono in casa fece subito un numero di telefono per trovare un avvocato. Era il cellulare di Piero Amara. Che rifiutò l’incarico.