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Marco Giusti per Dagospia
Appena presentato a Venezia fuori concorso, sarà meglio vedere in sala “Enzo Jannacci – Vengo anch’io”, completissimo documentario sulle canzoni, la musica, la figura di Enzo Jannacci, geniale cantautore milanese, diretto dallo specialista Carlo Verdelli.
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Costruito non come un ritratto cronologico del personaggio, ma come un susseguirsi atemporale di canzoni, esibizioni, racconti, repertori, più o meno inediti, e davvero molte interviste a personaggi che lo hanno amato e conosciuto, da Paolo Conte a Vasco Rossi, da Roberto Vecchioni a Diego Abatantuono, da Cochi Ponzoni a Paolo Rossi, dal figlio Paolo al vecchio amico musicista Paolo Tomelleri, che avrei ascoltato per ore e ha ricordato l’epoca de "I Cavalieri”, il gruppo che comprendeva anche Celentano e Tenco, il documentario non punta, come avremmo fatto in molto, al ricordo di una Milano che fu, la Milano di Luciano Bianciardi, per dire, qui mai nominato, che fece da padrino sia per il primo disco, “La Milano di Enzo Jannacci”, che per la prima apparizione cinematografica, ne “La vita agra” di Carlo Lizzani, dove canta “Ti te se no” e “L’ombrello di mio fratello”, ma tende a presentare l’opera di Jannacci come un tutto unico.
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Dagli anni di “El portava i scarp del tennis” a “Messico e nuvole” da “Quelli che” a “Io e te”, come se non esistesse un prima e un dopo la Milano del Bar Giamaica o la Milano di Bianciardi e di Fo. Visto che come tanti ragazzi dell’epoca, crescendo nel norditalia, sono cresciuto con le canzoni di Jannacci e con i suoi incredibili primi dischi, magari avrei preferito un maggior interesse per il racconto della Milano del tempo. Il rapporto con Giorgio Gaber, devo dire, è ben raccontato, anche se forse si poteva sentire Maria Monti, come il rapporto, fondamentale, con Dario Fo e Cochi e Renato e gli anni eroici del Derby.
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Nulla si dice, e lì Paolo Tomelleri sarebbe stato interessante, di tutta la musica che Jannacci scrisse nei primi anni di Carosello, il mitico Unca Dunca di Riello, per esempio, che furono anni di sperimentazione sia di jazz sia di stravaganza. E che, insieme all’impostazione teatrale di Fo e al rapporto con Gaber devono aver contribuito non poco alla costruzione del personaggio e delle canzoni più folli di Jannacci. Un vero marziano alla Flaiano. Nessuno al tempo cantava così. E nessuno, a parte forse Elio, che nel documentario è intervistato, canterà più così.
Ammetto che ci sono molte cose che non sapevo, ad esempio che “Via del Campo” di Fabrizio De André nasce sulla musica di “La mia morosa la va alla fonte” di Jannacci, e moltissimo è il materiale inedito, soprattutto di duetti, con Mia Martini, Milva, Vecchioni, Vasco che non avevo mai visto o non mi ricordavo. Giustamente poco spazio è dedicato a Jannacci attore di cinema, lo fece per caso, lo ammette lui stesso, sostituendo David Warner per “L’udienza” di Marco Ferreri quando si buttò dalla finestra dell’albergo per suicidarsi dopo aver scoperto il tradimento della moglie.
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E viene ricordata la tournée con Gaber per “Aspettando Godot”, dove Felice Andreasi ebbe un terribile vuoto di memoria. Confesso che ho visto il documentario, che oggi troviamo quinto in classifica con 38 mila euro di incasso, con estremo piacere. Jannacci ci riporta intatto un mondo dello spettacolo in un paese dove ancora tutto era possibile, una Milano pre-craxiana, pre-berlusconiana, pre-modaiola che i più giovani non hanno mai visto e non possono neanche immaginare.
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